sabato 10 giugno 2017

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I PRESUPPOSTI TEORICI DEL MITO DELLA “DECRESCITA FELICE”
PERCHÉ E’ UTOPICO PENSARE DI RENDERE IL SISTEMA CAPITALISTICO COMPATIBILE CON IL RISPETTO DELL’AMBIENTE
di Marco Paciotti
27/05/2017

Il presente articolo trae spunto dal materiale didattico (lucidi) preparato da Domenico Laise, docente dell’Università La Sapienza di Roma, e presentato ad un seminario “Sull’attualità del pensiero economico di Marx”, tenuto presso l’Università Popolare Antonio Gramsci, nell’anno accademico 2016-2017.
Negli ultimi anni si è assistito, nel variegato campo della sinistra anticapitalista, a una crescente attenzione dedicata ai temi della “decrescita felice”, sdoganata dalle opere del filosofo ed economista francese Serge Latouche, il quale, grazie a tale parola d’ordine, ha acquisito enorme fama ed è finito per diventare un’icona anche per alcuni ambienti della sinistra antagonista, oltre che bandiera ideologica del Movimento 5 Stelle. Ma la decrescita è veramente un tema dirompente contro l’attuale modo di produzione? Può l’ecologismo alla Latouche essere conciliato nella teoria di Marx? La decrescita è concretamente realizzabile nel capitalismo?
Per poter rispondere a queste domande è necessario risalire alle origini teoriche dell’ecologismo alla Latouche. La formulazione più organica e coerente, e per certi versi acuta, dei motivi ecologisti può essere fatta risalire alla Bioeconomia, teoria economica proposta da Nicolae Georgescu-Roegen (1906-1994) per la realizzazione di un sistema ecologicamente e socialmente sostenibile. Per utilizzare le parole dello stesso Georgescu-Roegen, il paradigma teorico della Bioeconomia si fonda sul presupposto che “la sopravvivenza dell’uomo non è un problema né solo biologico, né solo economico, ma bioeconomico”.
Per spiegare la crisi ecologica, Georgescu-Roegen si avvale della scala entropica, in base alla quale si può classificare la materia che circonda l’uomo. Risalendo gradualmente la scala entropica si parte da strutture ordinate, che peraltro presentano un elevato indice di utilità economica, per arrivare a strutture sempre più disordinate, che presentano una contestuale caduta della propria utilità economica. L’aumento del disordine è descritto attraverso l’aumento del grado di entropia. Per fare un esempio concreto possiamo considerare un barile di petrolio, che ha un basso valore d’entropia. Una volta trasformato in combustibile e utilizzato sotto forma di carburante, il petrolio genera energia cinetica, inquinamento e calore, il quale presenta un elevato valore di entropia e viene disperso nell’aria, divenendo inutilizzabile.

Lo stesso ciclo produttivo è un processo unidirezionale e irreversibile dall’ordine al disordine, che ha come input materie prime e risorse naturali a bassa entropia e che ha come output le merci prodotte, l’inquinamento, gli scarti e i rifiuti, con un elevato grado di entropia. Si osserva, quindi, come nel processo di produzione le risorse della terra e l’energia fossile siano sfruttate e risultino progressivamente degradate. E’ da questo processo che, secondo Georgescu-Roegen, deriva la crisi ecologica e ambientale del nostro tempo. Egli sostiene che l’economia moderna è destinata al collasso a causa dell’esaurimento delle riserve di energia non rinnovabili, lasciando come eredità un mondo degradato, pieno di rifiuti e inquinato. Da questa considerazione deriva la necessità di fare ricorso alle risorse naturali in modo più prudente, integrandole con l’utilizzo delle energie rinnovabili come il sole e il vento, per perpetuare la sostenibilità delle economie moderne.
In sostanza, Georgescu-Roegen si interroga su che fare per rendere il modo di produzione capitalistico ecologicamente viabile. L’obiettivo del teorico della Bioeconomia è quello di rallentare il degrado entropico, fondando una “nuova etica” ecologica centrata su “una certa simpatia verso gli esseri umani futuri”. A tal fine, egli propone una “strategia della decrescita” da realizzare mediante un Programma Bioeconomico Minimale articolato in 8 punti:
proibire la produzione bellica;
pianificare il tenore di vita dei paesi in via di sviluppo;
ridurre la popolazione a un livello compatibile con l’agricoltura biologica;
eliminare gli sprechi di energia;
curare la passione morbosa per i congegni stravaganti;
liberare i consumatori dalle mode;
produrre beni che durino più a lungo;
aumentare di molto il tempo libero (questo è l’unico punto in comune con il programma minimo marxista, dato che coincide con la riduzione dell’orario di lavoro, anche se va detto che Georgescu-Roegen “dimentica” di specificare che ciò vada ottenuto senza alcuna contestuale riduzione del salario).
Per Georgescu-Roegen tale programma deve essere lo strumento per realizzare un “état de decroissance”: uno stato di decrescita.
Pur senza pretendere di avere risposte certe, Georgescu-Roegen ritiene tale programma realizzabile in regime di capitalismo. Tale concezione risulta viziata da un errore di fondo: l’identificazione e la relazione deterministico-meccanicista tra produzione entropica e crisi ecologica. Infatti, già in epoca medioevale la produzione era entropica, ma non vi era alcuna crisi ecologica dovuta al grado molto basso di entropia riscontrabile in un modo di produzione come quello feudale, dove il surplus era utilizzato per la costruzione di dimore signorili e cattedrali e non per essere accumulato come nel sistema economico capitalista, fondato sull’accumulazione per l’accumulazione. D’altronde è con il passaggio dalla bottega artigiana alla grande fabbrica che inizia il degrado entropico che è alla base della crisi ecologica di oggi.
L’ottimismo di Georgescu sull’effettiva realizzabilità del programma bioeconomico in regime capitalistico non è per nulla condivisibile. Egli sembra dimenticare che l’attuale modo di produzione sia basato su un meccanismo di accumulazione di profitto fine a sé stesso e autoperpetuantesi all’infinito. Lo schema D–M–D’ mette in luce la centralità dell’investimento finalizzato all’accumulazione di profitto, e la relativa autonomizzazione di tale ciclo economico nel capitalismo, che si autoalimenta senza limitazioni assumendo natura di feticcio. Il profitto ricavato alla fine di un processo produttivo, viene sempre reinvestito per creare nuovo profitto, che a sua volta verrà investito e così via. Tutto ciò è descritto dal principale teorico del liberismo Adam Smith: “Il profitto è la fonte degli investimenti, che sono la fonte del profitto: il capitalismo è accumulazione. Il capitalista è un benefattore parsimonioso, mentre il prodigo è un nemico pubblico”. Il capitalismo è basato inoltre sulla concorrenza, perché presupposto della sua esistenza è la libertà di iniziativa economica. Ognuno può produrre ciò che ritiene più redditizio nella misura che ritiene più opportuna, e alla fine è il mercato a decidere chi ha avuto ragione e chi meno. La concorrenza si risolve quindi in ciò che Marx definisce l’anarchia della produzione, in uno scontro a tutto campo dove solo i capitalisti più avveduti possono sopravvivere. E’ evidente come un tale sistema sia sostanzialmente incompatibile con una pianificazione sociale della produzione e con un’accumulazione che tenga conto dell’equilibrio ecologico.
L’entropia, da sola, non è sufficiente a spiegare l’esistenza della crisi ecologica mondiale. Non è tanto la natura entropica della produzione a causare i problemi ambientali, quanto la sua finalizzazione alla produzione di profitto “ad infinitum”, in un meccanismo perverso che comporta volumi di produzione tali da generare elevatissimi gradi di entropia, e quindi, la crisi ecologica. Un sistema che vive sulla base dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo, non può che comportare anche lo sfruttamento indiscriminato dell’uomo sulla natura, creando un inscindibile nesso tra modo di produzione capitalistico e crisi ecologica. Georgescu-Roegen non si avvede di tale nesso perché disconosce la teoria del valore-lavoro di Marx, che (riconoscendo nel lavoro umano, nel lavoro vivo, la fonte della valorizzazione e del plusvalore) svela la natura strutturale dello sfruttamento capitalistico dell’uomo sull’uomo. L’analisi bioeconomica rimane invece confinata alla teoria del valore-entropia, ignorando che un basso grado di entropia di per sé non genera alcun valore. Essa finisce per presupporre un impensabile capitalismo a profitto zero (il plusvalore è nullo se non c’è il lavoro umano). Il bioeconomista non riesce ad avvedersi, quindi, che il superamento del modo di produzione capitalistico sia la condizione necessaria (anche se non sufficiente) per poter ovviare alla crisi ecologica. Con questo non si vuole certo affermare che la fine del capitalismo possa comportare automaticamente la fine della crisi ecologica. Ma è solo con la rottura dell’autonomia dell’economico, e quindi con la fine dei processi di reificazione e feticismo che esso comporta, e con la realizzazione di un modo di produzione progressivo, successivo a quello capitalistico, sottoposto al diretto controllo dei lavoratori-produttori associati, che si può pensare di pianificare uno sviluppo delle forze produttive ecologicamente sostenibile, che realizzi l’equilibrio tra uomo e natura, garantendo la salvaguardia e la riproduzione dello stesso genere umano.
In conclusione, se confrontiamo il Programma Bioeconomico Minimo con il “Circolo virtuoso della decrescita serena”, teorizzato da Latouche, ci rendiamo conto di come non solo il filosofo francese ripeta sostanzialmente i punti del già di per sé debole programma di Georgescu-Roegen, denotando la sua scarsa originalità quale pensatore, ma di come egli lo depotenzi ulteriormente omettendo qualsiasi riferimento alla riduzione della giornata lavorativa. Infatti, con i suoi 8 punti, Latouche propone di:
rivalutare un insieme di valori (altruismo, collaborazione, localismo, ecc.);
riconcettualizzare le nozioni di ricchezza/povertà, scarsità/abbondanza, ecc.;
ristrutturare l’apparato produttivo in base ai nuovi valori;
ridistribuire le ricchezze e il patrimonio naturale;
rilocalizzare la produzione su scala locale;
ridurre l’impatto sulla biosfera della produzione;
ridurre lo spreco sfrenato;
riciclare i rifiuti.
Questo programma, noto come “il programma delle 8 R”, riassume il pensiero di Latouche, basato sulla nozione della “Decrescita Felice”. Come già detto, esso è teoricamente “incommensurabile” con il pensiero di Marx.
Nella concezione di Marx l’Uomo e la Natura sono in un “rapporto di ricambio organico”. Operando con il suo lavoro sulla Natura, l’Uomo cambia la Natura, che, a sua volta, cambia l’Uomo (co-evoluzione). Questo condizionamento “bidirezionale” (circolare) Uomo-Natura non è compatibile con la concezione “unidirezionale” (lineare) propria del modo di produzione capitalistico, nel quale “la finalizzazione a senso unico (esclusiva) della produzione al profitto” implica, di necessità, assenza di condizionamenti sociali al saccheggio e al degrado della Natura e, quindi, lo sfruttamento oltre ogni limite delle risorse naturali. La co-evoluzione dell’Uomo con la Natura, postulata da Marx, è, evidentemente, il presupposto necessario per un corretto pensiero ecologico. Ma una equilibrata (organica) co-evoluzione Uomo-Natura nega l’autonomia dell’economico e pone limiti sociali al profitto, che non sono compatibili con il modo di produzione capitalistico. Una incompatibilità essenziale che è presente in Marx, ma che è assente nel pensiero bioeconomico di Latouche.

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