mercoledì 10 maggio 2017

pc 10 maggio - DOCUMENTO SULLA SITUAZIONE ILVA - a cura dello Slai cobas sc Taranto


A livello mondiale, la crisi economica continua a  provocare un’acuta guerra commerciale che, sul piano industriale, ha uno dei suoi cuori pulsanti nella siderurgia mondiale.
La crisi è una crisi di sovrapproduzione, sempre secondo il significato capitalista del concetto - sovrapproduzione rispetto alla realizzazione dei profitti, perchè nessuno può negare che se i fini della produzione mondiale non fossero indirizzati alla produzione privata e ai profitti, l’acciaio sarebbe prodotto nettamente al di sotto dei bisogni di sviluppo industriale nel mondo.
Alla crisi di sovrapproduzione i padroni in ogni paese del mondo reagiscono con il taglio della produzione, con la riduzione del costo del lavoro per produrre acciaio in modo da venderlo a prezzi più bassi nei mercati mondiale ma sempre per ricavarci il massimo profitto possibile.
La siderurgia mondiale quindi va ristrutturandosi e anche innovandosi in maniera consistente sul piano tecnologico, e non certo per ridurre l’impatto ambientale, come spesso si dice, ma sempre e solo per avere acciaio migliore, prodotto a costi più bassi, in cui per “costo” si intende principalmente il salario dei lavoratori e le condizioni di sicurezza dei lavoratori.
I produttori di acciaio hanno portato, col sostegno dell’aristocrazia operaia, Trump alla presidenza, perchè si faccia protagonista di una politica protezionista. E di fatto questo sta avvenendo.

L’Italia è uno dei paesi che risente di questa politica. Come pure risente della gigantesca spinta che viene da alcuni paesi come la Cina che ha una produzione globale di +5,8% e l’India che nel 2017 sta crescendo tantissimo, con un aumento della produzione di 12%, che porta questo paese ad insidiare il secondo posto assoluto, tenuto attualmente dal Giappone, come maggior produttore mondiale dell’acciaio.
Ma i pericoli maggiori, in particolare per l’industria italiana, vengono dal boom della Turchia, le cui vendite sono cresciute del 74%.
Quindi, ci troviamo di fronte al fatto che anche il mercato italiano, che è tornato a crescere leggermente nei primi 3 mesi del ’17 - “con 6.122 milioni di tonnellate prodotte, + 5,5%, è il miglior trimestre degli ultimi tre anni. Un risultato trainato dalla leggera ripresa dei consumi in settori chiave, come la meccanica” - e che, quindi, dovrebbe godere anche dei vantaggi della riduzione delle importazioni cinesi frenate dai dazi antidumping decisi dalla UE, viene però occupato dall’India, dall’Egitto e soprattutto dalla Turchia - la Turchia ha raggiunto ormai l’8° posto nel mondo. Quindi, i
produttori italiani dell’acciaio non traggono tutti i vantaggi di questa leggera ripresa.
I produttori minori di acciaio comunque non se ne stanno fermi e sono anch’essi impegnati in innovazioni tecnologiche e ristrutturazioni, e svariati processi di verticalizzazione e fusioni.
Giustamente il Sole 24 ore chiama tutto questo “risiko dell’acciaio” e ne offre un quadro dettagliato nel suo articolo del 26 aprile, a cui rimandiamo.
E’ inutile dire che parlare di acciaio italiano significa parlare del centro e dell’attuale “buco nero” dell’industria siderurgica italiana, che è l’Ilva.
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La novità di questi giorni finisce per legare le sorti di Piombino con quelle dell’Ilva.
Le pagine dei giornali sono occupate dal nuovo stadio della crisi dell’ex Lucchini di Piombino.
Qui, ormai, la situazione è ai limiti del precipizio. La Aferpi, così si chiamano le ex acciaierie, era stata ceduta con un piano di svendita realizzato da governo e sindacati al gruppo algerino Cevital di Reprab, che anche qui aveva promesso, come sono soliti fare i padroni in queste occasioni, miracoli: ripresa dello stabilimento, suo sviluppo, insieme a tante altre cose per la città, per l’ambiente, che in questi due anni hanno riempito le pagine dei giornali. La verità è che nulla di tutto questo è stato realizzato e la fabbrica è ridotta ad un solo treno di laminazione. Governo e operai, con la regia sindacale a fare da tramite, sono tornati a protestare e a chiedere il rispetto degli impegni. Alla Cevital sono stati dati 15 giorni per confermare i suoi impegni; conferma necessaria per prorogare la legge Marzano che consente di mantenere in piedi fabbrica e ammortizzatori sociali ancora per due anni.
Cevital ha risposto con una lettera con cui dà conferma, dicendo che ha già investito 100 milioni e sta cercando i soldi – ma lo aveva detto già due anni fa – per fare gli investimenti promessi. Ha scaricato sulle banche italiane le difficoltà, perchè, secondo Cevital, sono in completa latitanza per qualsiasi forma di sostegno. Ma, evidentemente, una lettera di questo genere non è garanzia di nessun futuro. E gli operai di Piombino hanno ragione di preoccuparsi, anche se c’è chi nelle fila operaie ha sostenuto questo fin dall’inizio ma è stato isolato dall’alleanza infame Cevital-governi-sindacati confederali.
In questi giorni sarebbe arrivata una lettera del gruppo indiano Jindal che esprime interessamento a prendere il posto della latitante Cevital. La manovra della Jindal sembra abbastanza scoperta. Da un lato è un’altra carta che viene giocata nella battaglia dell’Ilva: Jindal alle infinite promesse sull’Ilva, aggiungerebbe la carta Piombino, anche se avrebbe fatto sapere che Piombino interessa anche in caso di perdita dell’Ilva.
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Ma, chiaramente, è la questione Ilva il centro della contesa. Qui, i giorni passano e le decisioni vengono rinviate di 15 giorni in 15 giorni. Quali le ragioni oscure di questi rinvii. Si possono fare diverse ipotesi. Una è legata alla non accettazione dei piani ambientali, che nessuno conosce ma che vengono continuamente descritti come risolutivi del rapporto produzione/ambiente; se fosse così risulterebbero sicuramente troppo onerosi per i due gruppi industriali e si sta trovando, sia pure nel cuore di una contesa, la maniera per eluderli. La seconda ipotesi è il peso dei famosi soldi dei “paradisi fiscali” che nell’accordo governo-Procure-Riva-commissari, dovrebbero essere una sorta di ‘bonus di entrata’ messo a disposizione dell’acquirente. La terza va legata all’ignota cifra di acquisizione dell’Ilva su cui si gioca l’asta della svendita al miglior offerente. Qui, secondo voci, l’offerta sarebbe troppo bassa e il governo starebbe resistendo, chiedendo, diciamo, un rilancio.
Altra ipotesi, ancora, è che si possa essere di fronte a competitor prestigiosi, cioè a promesse mirabolanti ma soldi ancora tutti da trovare (uno scenario Cevital). Si è già parlato. D’altra parte, di come il gruppo Arcelor Mittal, pur essendo il primo produttore di acciaio nel mondo, sia pieno di debiti e recentemente si è visto il padrone Mittal chiedere anch’esso l’ingresso della Cassa Depositi e Prestiti, che ha risposto subito di essersi impegnata con l’altra cordata, o esprime disponibilità all’ingresso di altri soci, cosa che, vista la descrizione di floridezza che aveva fatto nei giorni caldi della propaganda, sembra quantomeno un pò contraddittoria.
Lo stesso Jindal potrebbe avere problemi e il suo interessamento a Piombino potrebbe già essere l’ipotesi di una carta di riserva di minore dimensione e costi.
D’altra parte come non pensare che la guerra sull’Ilva sia anche una contesa tra iene su uno stabilimento comunque destinato alla morte? Come non pensare che le due cordate operino in una operazione di sciacallaggio industriale? Come non pensare che il tempo non giochi a favore dell’Ilva e che, quindi, si possa prenderla a condizioni ancor più vantaggiose, aspettando, traccheggiando? Come non pensare che la stalla è vuota e i buoi sono già scappati e le grandi committenze si vadano posizionando su altri fornitori? Quale altra spiegazione ha il boom della Turchia, il cui maggior produttore, inizialmente doveva far parte della “guerra dei bottoni” per l’Ilva e che ora già sembra aver acquisito fette del mercato Ilva, senza dover entrare nell’armata brancaleone della cordata Arvedi-Del Vecchio-CdP, somigliante in maniera impressionante alla cordata Alitalia, di cui si accendono i ceri in questo stesso periodo?
E’ il capitalismo bellezza! E’ l’imperialismo in action della guerre commerciali, anticamera spesso delle guerre militari.
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Guardando il tutto dal lato della classe operaia, delle masse popolari, non c’è da fare tante ipotesi. Padroni, governo e sindacati confederali marciano a tappe forzate verso la ristrutturazione-disastro. Padroni di Stato, commissari, padroni italiani, padroni indiani, vogliono solo profitti, e la carne da macello sono sempre gli operai, i quartieri inquinati, i salari, i diritti. 
I governi sono degli autentici agenti e piazzisti dei padroni, i “sindacalisti delle cordate” che in questi anni, state sicuri, non hanno perso un centesimo né di salari né di potere, come casta e puntello della fabbrica della morte capitalista sono impegnati ad ottenere solo qualche promessa ai Tavoli ufficiali e ai Tavoli segreti (gli operai stanno ancora aspettando di sapere che si sono detti quando, fuori da ogni procedura e da ogni calendario, hanno incontrato i padroni Mittal e Jindal), sindacati che hanno svenduto la fabbrica ai padroni ancor prima del governo e che ora trattano ‘corsi di riqualificazione’ grotteschi per gestire gli esuberi, corsi che con la complicità della Regione vogliono assegnare a Enti di formazione legati agli stessi sindacati – tra quanti anni poi dovremo parlare di “scandalo corsi” come dello “scandalo Vaccarella”?

Ma la denuncia sembra non far breccia nelle fila di operai resi sudditi, in attesa inebetita del “male minore”. Ma il “male minore” è quello di adesso, con condizioni di lavoro e di sicurezza costantemente precari e a rischio, con pezzi di fabbrica che cadono a pezzi, con un salario sempre ridotto, con tutti impegnati nella guerra di bassa intensità tra lavoratori, che le soluzioni dei Tavoli romani fomentano.

In ogni caso, focolai di lotta ci sono e sono sempre latenti, punti di ripresa e di ripartenza covano in ogni reparto e in ogni area, operai che vogliono sottrarsi al gioco al massacro e impugnare l’arma della lotta di classe, dell’unità di classe, dell’organizzazione di classe ci sono.
Noi pensiamo che in questi due mesi si possano chiamare a venire allo scoperto, unirli in rete – non virtuale ma reale – una rete che non può in nessuna maniera coincidere con gli attuali sindacati presenti, compresa l’Usb - e che riparta dall’unica richiesta necessaria: nessun licenziamento, riduzione d’orario di lavoro a parità di paga, prepensionamento massiccio per chi ha già lavorato per 25 anni, e che ha subito sulla sua pelle tutti i danni, priorità di sicurezza e salute; unità tra operai e masse popolari, a partire dai quartieri inquinati in assemblee popolari, realmente libere e pensanti, nel senso di organizzare la nuova fase della lotta che serve per rispondere alla nuova fase dell’azione di padroni, governo, Stato.

Ora più che mai: una scintilla può incendiare la prateria!

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