lunedì 20 febbraio 2017

pc 20 febbraio - ancora contro la montatura ai danni di aldo milani e del si cobas a Modena - una testimonianza che serve a comprendere meglio alcune cose

From: Alessandra Cecchi alexik65@gmail.com
To:
Subject: CRONACA DI UNA MONTATURA

28 gennaio 2016, ore 10.00. E’ freddo davanti ai cancelli del carcere di Modena, quel freddo umido che ti entra nelle ossa.
E’ la prima volta che ci vengo, ma non è stato difficile trovarlo, seguendo i gruppetti dei lavoratori che gli si avvicinano alla spicciolata.
Dietro quelle sbarre e quei muri c’è Aldo Milani, coordinatore nazionale del SI Cobas.
Non lo conosco personalmente. Sono qui per capire, anche se in realtà alcune risposte me le sono già date, da quando i TG hanno cominciato ad infangarlo a reti unificate.
“Avevano appena intascato una mazzetta. Due sindacalisti della sigla SI Cobas sono stati arrestati in flagranza di reato dalla polizia a Modena. L’ accusa è di estorsione aggravata e continuata nei confronti di un noto gruppo industriale che opera nel settore della carne. Motivo: ammorbidire le pressioni delle proteste”.
Un’accusa infamante, l’accusa “perfetta” se vuoi distruggere un compagno.
Perfetta per i borghesi, inorriditi dal ricatto contro i poveri imprenditori vessati, ma perfetta anche per insinuare il dubbio, stimolare la rabbia di chi viene indotto a credere che le lotte siano state svendute per denaro.
I TG hanno anche esibito la così detta “prova regina”, pochi secondi di un video senza audio che mostra quattro persone attorno al tavolo di una trattativa sindacale, due delle quali si passano una busta.
A seguire, le immagini di repertorio delle cariche sui picchetti dei lavoratori della logistica, poste ad arte per suggerire il teorema della “durezza dei blocchi” come fase preliminare dell’epilogo estorsivo.

“Come è possibile?” è stata la mia prima domanda, e troppe cose mi sono passate per la testa tutte insieme: il sorriso soddisfatto dei padroni e dei loro caporali cooperativi, i sorrisi di CGIL, CISL e UIL, sempre pronti a stigmatizzare la “violenza dei picchetti”. E poi la criminalizzazione di una lotta, il rischio che riescano a sconfiggerla, a ricacciare migliaia di persone nell’ombra di uno sfruttamento senza speranza.
Su Milani, in quel momento, non sapevo cosa pensare.
Ero incazzata, ma ho sospeso il giudizio fino a quando non sono emersi altri elementi (non certo dai telegiornali, né dalle cronache dei quotidiani principali).
In particolare:
-         che chi ha intascato la busta con un gesto plateale non era Milani, e neanche un appartenente al Si Cobas o un consulente di parte sindacale, come sostenuto dai TG, ma un cosiddetto “mediatore” (tale Piccinini) convocato in trattativa dall’azienda;
-         che nell’audio della trattativa Milani ha parlato solo dei 55 licenziamenti nella logistica della Levoni e delle spettanze dei lavoratori, non di mazzette per il sindacato;
-         che solo Piccinini è stato arrestato in flagranza di reato con la busta addosso; Milani è stato arrestato varie ore dopo, a casa sua, perchè non erano insieme.
E’ una trappola.
Non è la prima volta che succede. Anzi, è dai tempi di Haymarket Square che la costruzione di accuse false viene utilizzata contro il movimento operaio.
Cosa dite? Che sono passati 131 anni e questi metodi non si usano più?
Che gli imprenditori di oggi non ne sarebbero capaci?
Dite che adesso ci sono la democrazia, la legalità, le regole?
Dite che la polizia non mena più gli operai davanti ai cancelli?
Che nessuno muore più nella forzatura di un picchetto?
Che i sindacalisti combattivi non vengono più aggrediti in un agguato?
Che i picchiatori delle aziende non si avventano più con i bastoni sui lavoratori in sciopero?
Che non vengono più utilizzati crumiri?
Che non vengono più utilizzati caporali?
Che non si licenzia più per rappresaglia antisindacale?
Che i salari bastano per condurre una vita decente?
E che queste cose fanno parte di un passato remoto, così come la costruzione di montature mediatico/giudiziarie contro i sindacalisti.
Ne siete sicuri?
Io no, e la mattina del 28 gennaio, davanti al carcere di Modena, continuo a farmi domande, del tipo “come si esce da ‘sta storia di merda?”.
Ho cercato le risposte nei siti internet di varie organizzazioni del sindacalismo di base, ma tace l’USB, tace la CUB. Bernocchi dei Cobas purtroppo no: “invitiamo tutti i mezzi di informazione ad evitare qualsiasi confusione tra i Cobas e il cosiddetto SI Cobas...”. Questa è la sua unica preoccupazione.
C’è chi prende le distanze, chi fa il vago. Solo l’ADL e la sinistra CGIL dimostrano di comprendere la portata dell’attacco, rivolto non solo contro Milani e il SI Cobas, ma contro tutto il sindacalismo di base e contro tutte le lotte, della logistica e non.
Se passa questa provocazione tutti potranno essere colpiti, prima o poi, allo stesso modo.
Su ogni picchetto potranno essere insinuate finalità malavitose, da quegli stessi media che la mafia delle cooperative han sempre fatto finta di non vederla.
La posta in gioco è alta. Per le ditte che guadagnano milioni sullo sfruttamento dei facchini, ma perdono milioni quando i facchini lottano. Per tutti i lavoratori della logistica che rischiano di subire un colpo durissimo nel loro percorso di liberazione.
Per questo sento il bisogno di ritrovarmi alle 10 del mattino davanti a un carcere, per dimostrare vicinanza ai primi destinatari dell’attacco, queste centinaia di operai di ogni colore che accorrono al presidio.
E’ in loro la risposta che cercavo: “La solidarietà è un’arma”, è il calore che unisce ragazzi neri, magrebini, sikh e pakistani, sindacalisti dai capelli bianchi, compagne e compagni dei centri sociali.
L’italiano è la lingua degli slogan, lo strumento che unisce queste genti, una lingua “coloniale” usata per capirsi nella lotta. Oggi mi accorgo di amarla molto più di quando me l’insegnavano a scuola.
Così come non mi sembrano patetiche o retrò le canzoni della nostra resistenza gridate dall’amplificazione. Perchè sono qui gli eredi degli operai delle Fonderie Riunite, dei licenziati che nel ‘50 affrontarono, proprio in questa città, il piombo della polizia.
Oggi battono sui cancelli di un carcere per riavere indietro un loro compagno, mentre altri come loro scioperano a Milano, Piacenza, Parma, Brescia, negli interporti di Bologna e Roma.
Non hanno creduto a una sola parola delle veline della Questura, e non ne sembrano neanche tanto stupiti. Del resto, nel corso delle loro lotte, ne hanno già viste di tutti i colori.
Sorprende come in una situazione del genere possano esprimere anche allegria: ogni tanto la pressione sui cancelli del carcere si allenta, e qualcuno grida “fate largo che Aldo sta uscendo”. Allora nel presidio si apre un varco per farlo passare, come in un rito propiziatorio.
Finchè, nel pomeriggio, non esce davvero. Non proprio libero: con obbligo di dimora a Milano. L’interrogatorio è andato bene, ma la storia non è certo finita, né a livello giudiziario né mediatico.

La macchina del fango è ancora in piena attività, ma se non altro, se volevano assicurarsi la pace sociale, forse hanno sbagliato sistema.

Nessun commento:

Posta un commento