giovedì 20 ottobre 2016

pc 20 ottobre - INNSE - sono i lavoratori che bocciano l'accordo sindacale il problema per i padroni


da corriere della sera


Da azienda simbolo della resistenza operaia che vince la crisi a caso di cronaca nera. La parabola della Innse di via Rubattino passa, nel giro di un mese, da un accordo sindacale che (di fatto) scavalca il Jobs act a un esposto alla prefettura in cui l’azienda denuncia l’impossibilità di realizzare il piano industriale. Possibile? La Innse è (era?) per Milano l’azienda dei miracoli. Nel 2009 venne rilevata sull’orlo della chiusura. Un salvataggio dovuto alla determinazione di quattro operai e un delegato Fiom Cgil che per diversi giorni rimasero in cima a un carroponte. Fino a convincere la bresciana Camozzi che lo storico stabilimento di via Rubattino poteva avere un futuro. Una volta spenti i riflettori la vicenda della Innse è entrata in una palude normativa. L’ipoteca sull’area è stata tolta solo l’anno scorso e così il progetto di risanamento è partito in ritardo.
Ora è arrivato finalmente il momento di fare sul serio. Camozzi ha accettato che il vincolo alla destinazione d’uso industriale dell’area fosse allungato di cinque anni per recuperare i ritardi. Ma adesso sarebbero i lavoratori a frenare la ristrutturazione. Un esposto è stato inviato al prefetto in cui si elencano le denunce (cinque da marzo a oggi) presentate in questura per ostacolo all’attività produttiva da parte dei dipendenti. Il 14 ottobre l’azienda ha depositato un ricorso d’urgenza al giudice del lavoro per ottenere l’agibilità della fabbrica.

Davvero a Milano è in gioco la libertà di fare impresa? «Abbiamo deciso di portare l’Innse da problema a eccellenza. Quindi operiamo per applicare gli accordi. Oggi, però, ci è fisicamente impedito con atti illegali di fare ciò per cui ci siamo impegnati. Abbiamo chiesto alle autorità competenti di ristabilire la legalità dentro e fuori l’Innse. Senza la legalità diventerà impossibile fare impresa», risponde Lodovico Camozzi, presidente del gruppo. Eppure l’8 settembre, azienda e sindacato –— la Fiom Cgil, mica un’organizzazione dalla firma facile — hanno raggiunto un accordo importante, che addirittura supera il Iobs act. Camozzi, infatti, si è impegnata a «investimenti produttivi» per oltre un milione di euro, destinati all’acquisto di due nuovi macchinari in sostituzione dei vecchi impianti. Ma all’origine del via libera dei metalmeccanici Cgil c’è soprattutto un altro punto: il ricambio generazionale dei dipendenti. Camozzi si è infatti assunta l’impegno a distribuire nei prossimi tre anni incentivi all’esodo per i dipendenti con i requisiti minimi per il pensionamento e, parallelamente, a «un piano di inserimento di personale». Il testo firmato a Roma indica anche nello specifico di quali figure tecniche si tratterebbe. E — aprendo a sorpresa un varco nelle stesso fronte delle imprese — sottolinea che agli assunti «garantirà gli stessi trattamenti normativi degli altri lavoratori in forza». Cioè niente Jobs act. E vecchio inquadramento, con maggiori tutele. Tutto bene? No. Sottoposto a referendum tra i 28 lavoratori, l’accordo sottoscritto da sindacati, azienda e ministero è stato bocciato. Ora la questione esce dai binari sindacali e diventa materia penale.

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