lunedì 11 maggio 2015

pc 11 maggio - 4 - Milano NO EXPO - 1 maggio - Dialogato con i vivi - su un testo dell'autonomia diffusa mondiale

L’Expo e l’Internazionale senza nome - il testo segue il nostro commento. 

Il punto di vista sostenuto dal commento dell'autonomia diffusa dice alcune cose giuste ed altre meno giuste.
Vero è che l'Expo è un avvenimento mondiale che espone lo stato del mondo dal punto di vista del capitalismo; meno vero è che ci riesca per davvero sia nella realtà che nell'immaginario collettivo. 
Vero che è dal punto di vista di questo stato del mondo che va contestato; meno vero che sia così centrale questa contestazione. 
Chi scrive si illude su questo quando dice “tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e consistenza”; chi scrive prende per buono ciò che il capitale dice di sé stesso e si confronta sul suo terreno che non è il migliore dei terreni possibili per “l'altro mondo”.
Si ricorda, simpaticamente, come due secoli fa nei paraggi di Londra si tenne a battesimo la costituzione della I Internazionale, ma altrettanto simpaticamente occorre dire che essa era tutt'altro che una Internazionale senza nome, aveva nomi e cognomi piuttosto pesanti e raccoglieva effettivamente chi rappresentava il punto di vista altro, anzi, lo lanciava per il presente e soprattutto per il futuro, quel futuro in cui siamo tuttora immersi.
Gli autori dello scritto dicono che è facile dissociarsi da una manifestazione, ma diciamo che è altrettanto facile prendersi dei bersagli comodi nella polemica: il flic giornalista de Il Manifesto e settori squalificati dell'opposizione all'Expo.
La verità è che a Milano nessuno della maggioranza di coloro che hanno partecipato alla
manifestazione si è dissociato. Invece è una chiara dissociazione dal movimento quella di definire la manifestazione “una pacifica marcetta di protesta per i diritti e la democrazia” che sarebbe stata illuminata e valorizzata esclusivamente dalle azioni.
Chi scrive sembra troppo interessato, per i nostro gusti, a ciò che i giornali e Tv dedicano alla manifestazione che a quello che realmente essa è stata. Non è vero che tutti ragionano come chi scrive e che tutti sarebbero dei cercatori di visibilità mediatica ad ogni costo e che per questo si lamenterebbero; è una descrizione del movimento di comodo, facile facile e obiettivamente gratuita e innocua.
Questi compagni ci dicono che a Milano ciò che sarebbe avvenuto è una rivolta; ma a testimonianza cosa apportano? La similitudine con altre rivolte in corso nel mondo. Non, quindi, i fatti di Milano ma quelli delle altre rivolte, ma non basta avere le stesse pratiche per dire che si tratta delle stesse rivolte.

Su un altro punto invece chi scrive ha ragione. Quando rivendicano che si tratta di una strategia politica, niente affatto poco comprensibile ma comprensibilissima. Ma è ambizioso pensare che basti l'incarnazione di questa strategia politica per riaprire la questione della rivoluzione.
E' vero che sono le lotte, i conflitti, le “insurrezioni” che producono il popolo delle lotte, del conflitto e delle insurrezioni; ma non è vero che ogni conflitto, ogni lotta, ogni pratica produce il popolo che può far vincere le insurrezioni - all'interno della nostra visione che il popolo e solo il popolo è la forza motrice della storia.

Ha ragione chi scrive quando descrive il combattimento di Milano nel suo lato buono. In effetti le lezioni vanno imparate, ma il punto di vista nostro è che è il movimento di lotta il soggetto che deve imparare, perchè altrimenti siamo alla rappresentazione e conduzione permanente sempre e solo della stessa battaglia che, e anche chi scrive dovrebbe tenerne conto, finora non ha cambiato lo scenario del conflitto.

E' del tutto evidente che non condividiamo quando si scrive: “non esiste un soggetto sociale di riferimento della rivolta... che il punto è schierarsi e prendere posizione sulle pratiche”. Crediamo che non solo noi ma tutti coloro che vogliono combattere il capitalismo sanno bene che senza soggetto sociale di riferimento non si va da nessuna parte e si riduce lo scontro a uno scontro tra Stato e 'rivoltosi' in cui le masse e lo stesso “soggetto” non avrebbero altro da fare che tifare e schierarsi.
Alla fine chi scrive nel presentare le due alternative non sa vedere che o Siryza/Podemos o l'altro movimento rivoluzionario 'visibile' - cioè rappresentato dalle 'pratiche' di Milano.
Noi non pensiamo che le cose stanno così, e pensiamo che questa sì è una rappresentazione, ma più che di due ipotesi politiche tra due 'ceti politici.'


'La battaglia è appena cominciata' conclude il testo
è vero,, è una sfida da raccogliere però.

L’Expo e l’Internazionale senza nome 

Il carattere distruttivo conosce solo una parola d’ordine: creare spazio […] L’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso.
Walter Benjamin
L’Esposizione Universale, come dice la parola stessa, ha una vocazione globale: espone lo stato del mondo dal punto di vista del capitalismo. Tutto quello che accade attorno al suo evento ha dunque buone possibilità di raggiungere un identico piano di visibilità e di consistenza. Circa due secoli fa, a Londra, nei suoi paraggi si tenne a battesimo la costituzione della Prima Internazionale, tanto per dire. Un movimento che ha ambizione di essere all’altezza del suo tempo è obbligato in questo senso a confrontarsi con quello che è lo stato del mondo dal punto di vista della rivolta e a esporne a sua volta la consistenza.
Il flic-giornalista del Manifesto a un certo punto se ne rende conto, che la rivolta milanese risuona con una certa prassi comune a tutti gli appuntamenti significativi che negli ultimi tempi hanno attraversato l’Europa, e cerca disperatamente di dissociarsene invitando tutte “le realtà di movimento” a fare altrettanto.
Ma la verità è che se è facile e comodo dissociarsi da una manifestazione è molto più difficile farlo con la realtà; anche da qui viene tutto l’isterismo che scorre a fiotti sui giornali e sui social media e che sospettiamo frantumi la serenità di molte collettività politiche in questi giorni. Fortunatamente vi sono altrettanti compagni e compagne che invece di rimuovere il reale cercano di starci dentro o come minimo di ragionarci su.
Per anni, guardando a quello che accadeva in altri paesi d’Europa e del mondo, molti di quelli che oggi si indignano chiedevano con sconforto come mai in Italia non scoppiasse una rivolta contro la bulimia del potere capitalistico. Adesso che è arrivata sperano che la polizia e la magistratura, corroborata da fantasmatici servizi d’ordine, la faccia scomparire al più presto. Esponendo così la tradizionale vigliaccheria delatoria della sinistra nostrana.
È una banalità oggi dire che qualsiasi gesto politico è obbligato a confrontarsi con lo Spettacolo, meno scontato è assumerlo come uno dei piani del conflitto, come uno dei suoi terreni più aspri. Ogni rivolta contemporanea deve simultaneamente agire su più livelli di percezione, deve creare le proprie immagini e destituire quelle nemiche. Con ragione Bifo scrive che se non fosse stato per l’azione dei “teppisti” l’infosfera sarebbe stata saturata dalle immagini trionfaliste del governo e dei suoi lacchè, e per questo gli è grato. O qualcuno pensa davvero che televisioni e giornali avrebbero dedicato più di un trafiletto a una pacifica marcetta di protesta per i diritti e la democrazia?
A noi pare in ogni caso che coloro che nel movimento si lamentano e magari accusano i “teppisti” di cercare la visibilità mediatica a ogni costo lo facciano perchè speravano di averla loro. A costoro non possiamo che suggerire che anche le immagini si “conquistano a spinta”.
La rivolta milanese si iscrive in una costellazione che per quanto riguarda l’Europa ha cominciato a formarsi immediatamente dopo il riflusso del movimento delle Acampades. Una volta terminata la storia degli Indignados e delle piazze occupate in molti hanno scelto di organizzarsi nei quartieri delle metropoli, di creare delle nuove basi per vivere e lottare, cercando di far esistere materialmente quel “comune” di cui tanto si è parlato negli ultimi anni. Ci si è cominciato a difendere. La rivolta di Gamonal contro la gentrificazione, poi la resistenza a Barcellona contro lo sgombero di Can Vies, l’ondata di émeutes all’indomani dell’assassinio di Rémi Fraisse in Francia, ucciso dalla polizia mentre con altri difendeva dei terreni contro le solite Grandi Opere, l’organizzazione in molte città italiane di reti di mutuo soccorso contro gli sfratti. Poi si è passato al contrattacco. La freccia distruttiva che ha attraversato Francoforte il giorno dell’inaugurazione della BCE e poi Milano per quella dell’Expo fa parte di questo movimento che, ad oggi, è l’unica ipotesi di movimento rivoluzionario in campo. Invitiamo chi, anche in buona fede, non riesce a vedere una “strategia politica” nella sequenza dei riot europei a decentrarsi e a cercare di guardare quello che accade da questo angolo visuale, da questo parziale punto di vista. Crediamo che molte cose gli appariranno più chiare. A differenza di quanto si dice in giro a proposito della “ poca comprensibilità” delle pratiche, presumiamo che a chi la crisi l’ha pagata per davvero il tutto sia stato così tanto comprensibile da non aver bisogno dei sottotitoli. Con tutta evidenza si tratta di un tentativo di ritorcere la crisi contro se stessa, di iniziare a far pagare caro coloro che negli scorsi anni si sono organizzati per devastare le vite di milioni di persone. Di impedire che i festeggiamenti di governi e padroni suggellassero il compimento della loro missione e di riaprire la questione. E la questione da riaprire è quella rivoluzionaria. Sono le lotte, i conflitti, le insurrezioni che producono il “popolo che manca”e non il contrario.
Probabilmente bisogna rovesciare il punto di vista anche rispetto alle dinamiche di ciò che è avvenuto a Milano e smetterla di pensare solamente a come è stato organizzato il dispositivo dell’ordine pubblico. La rivolta ha cercato e praticato i suoi obiettivi tra i quali, certamente, vi era la ridefinizione dell’arredo urbano ma anche quello di tenere a distanza la polizia e si è organizzata conseguentemente. Chiunque guardi con un po’ di attenzione le decine di video in circolazione può rendersi facilmente conto della tattica rigorosamente asimmetrica praticata dai rivoltosi. E crediamo che molti acconsentiranno che seppure le auto incendiate non sono dei grandi obiettivi da praticare sono preferibili alle decine di teste spaccate che avrebbe provocato un impatto frontale. Che un uso determinato della forza riesca ad evitare il massacro d’altra parte è una vecchia regola ben conosciuta dai movimenti autonomi del passato.
La rivolta, quando arriva, mette in crisi il legame sociale, quello che lo Stato vieta di sciogliere, e porta le identità politiche e sociali a un punto di indistinzione. Non esiste un “soggetto sociale di riferimento” della rivolta e tutti, volenti o nolenti, vengono interpellati dall’interruzione che essa imprime nel tempo e nello spazio: le “pratiche” sono un invito rivolto a chiunque a prendere posizione.
Ora a noi pare che allo stato attuale delle cose in Europa vi siano solamente due possibilità a questo proposito. O si pensa che bisogna puntare al governo, è l’ipotesi Podemos/Syriza, oppure che valga la pena tentare una diversa “verticalizzazione” delle lotte, cioè organizzarle in un movimento rivoluzionario. Le due possibilità non sono compatibili e a ben guardare nemmeno alternative tra loro: sono nemiche. Per questo, ancora una volta, l’ostacolo più ingombrante che i rivoluzionari si trovano davanti è il ceto politico della sinistra dentro e fuori del movimento. Per il momento molti tacciano, chi per imbarazzo chi per calcolo.
La battaglia è appena cominciata.
Per l’autonomia diffusa mondiale

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