lunedì 23 febbraio 2015

pc 23 febbraio - Contro il jobs act di Renzi - un commento critico

Non c’è voluto poco per rendere il mondo del lavoro italiano un lento dinosauro di fronte alla veloce, temibile e tecnologicamente avanzata lotta di classe del capitale. Il disarmo ideologico e politico dei lavoratori è stato un percorso lungo, ma costantemente e pervicacemente portato avanti in modo efficace all’interno delle loro stesse rappresentanze politiche. Lo sfratto della contraddizione tra capitale e lavoro nella discussione politica è stato un passo importante e grande per le classi borghesi dominanti. Il “merito” deve essere ascritto sicuramente alle forze socialdemocratiche revisioniste, le quali hanno fatto il grosso del lavoro.

Tuttavia, altrettanto “merito” deve essere riconosciuto alle ultime opposizioni italiane del re, le quali, beneficate da un suffragio elettorale cospicuo (anche se modesto, tarata l’astensione), hanno costruito un’alternativa politica completamente aliena dalle reali contraddizioni di classe, fondata sul complottismo della corruttela politica e degli sprechi, sulla mistica della legalità e della necessità di abolire le distinzioni persino tra destra e sinistra, figuriamoci tra capitale e lavoro. Un vero sogno per la classe dominante abbarbicata ai monopoli finanziari e industriali: il nemico non ha occhi per rendersi conto dei colpi mortali che si vanno preparando.

In ogni luogo di lavoro troverete molti lavoratori che si lamentano ad alta voce della perdita dei propri status, ma contemporaneamente archiviano alla categoria dell’antiquariato parole come “lotta di classe”, “proletariato”, unità ideologica e politica, spocchiosamente dichiarandole
inadeguate ai tempi e sfoderando però come sola alternativa un inutile grido contro l’ingiustizia e la corruzione, dietro al sogno di un “deus ex machina” giudiziario o politico che ripristini l’equità generale. Tanto vale darsi alla religione vera e propria; se non altro ha una dottrina più affascinante.

Un esempio di ciò può essere visto nell’atteggiamento tenuto nei confronti della più pesante controriforma del lavoro mai sferrata sui lavoratori italiani: il Jobs Act, approvato a velocità inusitata negli anni in cui alla guida del Governo non è la cosiddetta destra e all’opposizione abbiamo un sedicente gruppo rivoluzionario armato di apriscatole. I primi schemi di Decreto legislativo delegato hanno visto la luce alla vigilia di Natale. Il primo passo della controriforma riguarda proprio la libertà di licenziamento del padrone.

All’articolo 1 si prevede che i lavoratori che d’ora in poi verranno assunti a tempo indeterminato, subiranno la tutela debole del Jobs Act in caso di licenziamento illegittimo (1).

In un nostro precedente articolo avevamo illustrato i meccanismi della tutela in caso di licenziamento. Una tutela attenuata, cosiddetta “obbligatoria”, veniva prevista anche nei casi in cui l’imprenditore non raggiungesse determinate dimensioni occupazionali (2).

Che succede se un imprenditore, in forza delle nuove assunzioni dopo l’emissione del Decreto, supera i quindici dipendenti e raggiunge i limiti occupazionali per cui nella vecchia disciplina si passava alla tutela più forte (cosiddetta tutela “reale”)? I nuovi assunti verranno disciplinati dal Jobs Act, ma i vecchi assunti potrebbero passare alla tutela reale? Nemmeno per sogno. Il Governo ha pensato anche a questo. Il secondo comma dell’articolo 1 prevede che i vecchi dipendenti del padrone che, in forza delle nuove assunzioni, raggiunga il limite occupazionale per l’applicazione della vecchia tutela reale, non godano di quest’ultima, ma la disciplina della loro licenziabilità sarà quella del Jobs Act (3).

Tutto come prima? No. Forse un pochino peggio come avremo modo di dimostrare.

L’articolo 2 prevede che il giudice possa continuare a ordinare il reintegro del lavoratore sul posto di lavoro nei soli casi in cui dichiari il licenziamento nullo o discriminatorio, ovvero intimato in forma diversa da quella scritta (4).

L’articolo 3 prevede invece le nuove forme di sanzione del licenziamento per giustificato motivo e giusta causa.

Al primo comma si prevede che qualora venga dimostrato dal lavoratore in giudizio che non ricorrono né la giusta causa, né il giustificato motivo oggettivo o soggettivo, il giudice non reintegrerà più nessuno, ma dichiarerà estinto il rapporto di lavoro alla data di licenziamento, condannando solamente il padrone al pagamento di una somma di denaro (neppure assoggettata all’imposizione previdenziale) di importo pari a due mensilità della retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio. La somma non può però mai essere inferiore a quattro mensilità, né superiore a ventiquattro (5).

I casi in cui “non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo, soggettivo o della giusta causa” (6) sono quelli in cui il vostro datore ha addotto un motivo di licenziamento insufficiente o sproporzionato e il giudizio in cui l’avete citato ha dimostrato la sua malafede e l’insussistenza dei motivi addotti per licenziarvi. In questo caso, con il “nuovo corso” del Jobs Act, egli non dovrà riprendervi al lavoro ma tutt’al più dovrà pagarvi un’indennità nella misura sopra indicata. Su questa indennità il padrone non dovrà nemmeno pagarci gli oneri previdenziali. Non avrete nemmeno diritto di far interrompere il rapporto di lavoro alla data di pronuncia della sentenza: il giudice è obbligato a dichiarare comunque estinto il rapporto a far data dal licenziamento, anche se si è dimostrato che era assolutamente illegittimo!

Solo nel caso in cui il datore di lavoro si sia assolutamente inventato un fatto materiale di inadempienza o di scarso rendimento addebitato nei vostri confronti per licenziarvi, solo in questo caso, il giudice può ordinare il reintegro sul posto di lavoro. L’insussistenza del fatto deve però essere dimostrata in giudizio dal lavoratore. Facciamo l’esempio: Carlo è dipendente di Nicola. Nicola un bel giorno lo licenzia perchè afferma che Carlo ha mandato in frantumi un intero lotto di bicchieri che dovevano essere venduti. Carlo e Nicola vanno davanti al giudice Vladimiro, Carlo riesce a dimostrare che i bicchieri non sono stati rotti da lui, anzi non sono stati affatto rotti, che sono stati fintamente fatti passare come rotti, ma in realtà sono stati occultati e addirittura venduti sottobanco dal padrone in nero, al fine di simulare una perdita e licenziare il lavoratore massimizzando il guadagno. In questo caso il “fatto materiale” addebitato a Carlo si è dimostrato insussistente. Allo stesso modo avviene quando uno scarso rendimento viene contestato a Carlo ma Carlo riesce a dimostrare che ha svolto il suo lavoro con rendimento ordinario ed accettabile (7).

Il Decreto prevede che ancora lo stesso debba avvenire quando il lavoratore riesce a dimostrare in giudizio che l’inidoneità fisica o psichica contestata dal datore sia insussistente.

Vi sarete accorti che in tutti i casi sopra descritti si è sempre detto “quando il lavoratore riesce a dimostrare in giudizio” l’insussistenza della giusta causa, del giusto motivo oggettivo, del “fatto materiale” addebitatogli che sta alla base della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo.

Quasi tutti i lavoratori sanno che in caso di licenziamento doveva essere il padrone a dimostrare la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo! L’articolo 7 della Legge 604/66 poneva infatti a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare in giudizio i fatti costitutivi che stavano alla base della motivazione del licenziamento. Se il lavoratore impugnava il licenziamento doveva solamente (8) portare le prove della sussistenza di un rapporto di lavoro e di un licenziamento. Il padrone doveva provare i fatti che motivavano il licenziamento. Per tutti i lavoratori interessati dalla disciplina del Jobs Act non è più così.

Quando più volte viene affermato che questi provvedimenti contengono la summa della macelleria sociale in tema di diritto del lavoro, non è vizio di iperbole. L’inversione dell’onere della prova a favore del lavoratore in caso di licenziamento compensava una fondamentale diseguaglianza economica e di potere in sfavore del lavoratore: per il lavoratore espulso dall’azienda è difficile provare. I testimoni della vicenda lavorativa sono di solito i colleghi di lavoro, ancora sottoposti al potere economico e sociale del padrone e di solito restii a testimoniare contro di lui. L’articolo 7 della Legge 604/66 era un tampone all’abuso dominante della classe datoriale. Neutralizzava il sopruso economico e sociale che di fatto faceva il vuoto attorno al lavoratore che sfidava il padrone con la vertenza.

Oggi, il lavoratore del Jobs Act è del tutto sfornito di ogni tutela, qualsiasi cosa egli debba contrastare, anche la più terribile, anche il licenziamento discriminatorio più odioso, in giudizio sarà lui a dover provare l’insussistenza del motivo di licenziamento, la sua discriminatorietà. Se dovrà cercare testimoni nei colleghi di lavoro, si troverà di fronte soggetti ancor più ricattabili dal datore, perchè assogettabili loro pure a ritorsioni e licenziamenti molto più facili. In giudizio, il lavoratore a cui viene imposto l’onere di provare l’insussistenza dei motivi del suo licenziamento diventa un veliero senza vela in mezzo all’oceano.

Con riferimento proprio all’inversione dell’onere probatorio, alcuni autori (9) hanno già delineato alcune questioni di legittimità costituzionale del nuovo dettato normativo. In particolare, con riferimento al principio di eguaglianza sancito dall’articolo 3 della Costituzione, inteso nel dovere di “disciplinare in modo eguale situazioni uguali ed in modo diverso quelle differenti, sempre che in contrario non ricorrano logiche razionali e giustificazioni”. Viene osservato che sussiste una irrazionale disparità di trattamento tra i lavoratori assunti col Jobs Act e quelli tutelati dalla vecchia normativa. Solo in capo ai neoassunti incombe in modo sperequativo l’onere della prova in sede di impugnazione del licenziamento. Carlo e Giuseppe, entrambi dipendenti della stessa impresa, vengono accusati di aver rotto i soliti bicchieri e vengono licenziati per giusta causa. Carlo è assunto col Jobs Act e gli toccherà in giudizio di provare che i bicchieri non sono stati rotti da lui. A Giuseppe basterà impugnare il licenziamento e sarà il padrone Nicola a dover provare che Giuseppe ha rotto i bicchieri. La differenza non ha motivazione razionale, poiché situazioni di fatto eguali andrebbero incontro a una tutela completamente differente.

In aggiunta ai rilievi di tale autore, va osservato che la disparità di trattamento emergerebbe non solo con riferimento ai neoassunti, ma anche a quei lavoratori che, assunti prima del Jobs Act in una realtà occupazionale con “tutela solo obbligatoria” (inferiore a 15 dipendenti), diventano disciplinati dal Jobs Act se in forza delle nuove assunzioni avvenute dopo il Decreto la realtà occupazionale supera i 15 dipendenti. In questo caso essi passerebbero da una situazione in cui erano soggetti a tutela obbligatoria ex articolo 18 della Legge 300/70 in cui potevano avere un’indennità da 2,5 a 5 mensilità, ma doveva essere il datore di lavoro a provare in giudizio i fatti costitutivi del licenziamento, a una nuova realtà in cui l’indennità diventa sì di 2 mensilità per anno di servizio, ma sono i lavoratori a dover provare in giudizio i fatti costitutivi del licenziamento! Ciò anche se erano già dipendenti anteriormente all’entrata in vigore del Decreto! In questo caso la disparità sussisterebbe persino nei confronti di altri colleghi soggetti alla disciplina precedente per il solo fatto che la realtà occupazionale si è mantenuta ancora al di sotto dei quindici dipendenti!

Allo stesso modo, eguale disparità vi sarebbe nella previsione del divieto al giudice di valutare ogni sproporzionalità del licenziamento per i nuovi assunti. Infatti, l’articolo 3, comma 2 del Jobs Act, così recita: “Esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione”. In caso di licenziamento disciplinare, solo nel caso di insussistenza materiale del fatto può essere previsto il reintegro. Se il fatto materiale sussiste, ma è di scarsa rilevanza (uno lieve e non offensivo sgarbo verbale, cinque minuti di ritardo) e poteva essere applicata una sanzione conservativa (il richiamo, la multa), al giudice viene proibito in ogni caso di valutare il reintegro. La situazione crea disparità con la disciplina ante Jobs Act: anche per la disciplina Fornero, in tal caso poteva essere previsto il reintegro.

Sempre con riferimento a tale articolo 3, comma 2, la possibilità di reintegro in caso di dimostrazione dell’insussistenza materiale del fatto posto alla base della motivazione di licenziamento. è prevista con riferimento solo alla giusta causa e al giustificato motivo soggettivo, ma non con riferimento ad un fatto insussistente che sia posto alla base di un giustificato motivo oggettivo. Ad esempio una crisi aziendale che si riveli falsa o insussistente. In questo caso, diversamente dagli altri due, non è previsto il reintegro. Questa disparità si rivela ancor più marchiana, perchè incide su situazioni eguali disciplinate dalla stessa nuova normativa, oltre che sulla disparità rispetto a quelli ante riforma.

Particolarmente perniciosa la previsione dell’articolo 4, che stabilisce una sanzione “attenuata” per i licenziamenti intimati in violazione dei requisiti formali previsti dalla legge.

Dice l’articolo 4 (Vizi formali e procedurali): “Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia intimato con violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, comma 2, della Legge n. 604 del 1966 o della procedura di cui all’articolo 7 della legge n. 300 del 1970, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a due e non superiore a dodici mensilità, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione delle tutele di cui agli articoli 2 e 3 del presente Decreto”.

I requisiti formali non sono sciocchi vincoli di forma, ma furono previsti dalla legge per assicurare il diritto di difesa del lavoratore nei procedimenti espulsivi dal luogo di lavoro.

Il primo requisito formale è l’obbligo di fornire una motivazione al licenziamento, previsto dall’articolo 2, comma 2 della Legge 604/66. La motivazione consente al lavoratore la censura all’asserito provvedimento, consente di predisporre la sua impugnazione e vieta al datore di lavoro di inventare ex post il motivo di recesso. La violazione dei requisiti comportava la dichiarazione di nullità del licenziamento e il provvedimento di reintegro. Già la Legge Fornero aveva smantellato tale garanzia riformando l’articolo 18, comma 6 dello Statuto dei Lavoratori, prevedendo che per i licenziamenti intimati con vizi formali e procedurali fosse prevista la sola sanzione dell’indennità (10), riservando la tutela reale solamente per il licenziamento intimato in forma orale.
Il secondo caso di violazione dei requisiti formali riguarda l’inosservanza delle procedure di cui all’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori per i licenziamenti disciplinari. La nuova disciplina riduce quindi l’indennità e ribadisce il principio della tutela obbligatoria attenuata per le violazioni procedurali. Alcuni autori sono convinti che i profili di illegittimità costituzionale vadano ricercati nella violazione del cosiddetto “diritto di difesa” di cui all’articolo 24 della Costituzione, soprattutto con riferimento a ogni sorta di licenziamento disciplinare, laddove diviene principio fondamentale per chi è soggetto alla contestazione di un’infrazione e di un provvedimento sanzionatorio, conoscere il capo di contestazione e sviluppare in contraddittorio le proprie difese. Certo è che tali profili coinvolgono non solo il licenziamento disciplinare propriamente detto, ma sicuramente anche il licenziamento per giusta causa: la giurisprudenza dominante considera sempre di natura disciplinare il licenziamento per giusta causa, quello intimato a motivo di una condotta colpevole del lavoratore. In questi termini si è espressa fin dall’inizio la Corte Costituzionale con la sentenza n. 204 del 30/11/82 che ha definito il contraddittorio e il rispetto delle procedure volte alla tutela del diritto di difesa il cardine fondamentale di formazione delle regole e dei provvedimenti disciplinari.

Poniamoci però nei panni del datore di lavoro: se io intimo un licenziamento per giustificato motivo oggettivo che è insussistente, vado incontro alla sanzione pari a due mensilità per ogni anno di servizio (con “range” da quattro a ventiquattro mensilità). Se io non fornisco la motivazione del licenziamento vado incontro ad una sanzione indennitaria di una mensilità per anno di servizio (con “range” da 2 a 12). Esattamente la metà. Converrà al datore quindi violare del tutto le forme che cercare una motivazione censurabile. Vi è sempre la “spada di Damocle” della possibilità per il Giudice di applicare le tutele reintegratorie o le maggiori indennità di cui agli articoli 2 e 3, ma dovrà far ciò “sulla base della domanda del lavoratore”, il quale, all’attacco di un testo senza motivazione alcuna, non si troverà fornitissimo quanto agli elementi di contestazione.

Questo “corto circuito” che finisce per favorire una condotta illegittima si manifesta come una palese disparità di trattamento che può andare incontro a un’ulteriore censura di costituzionalità per la normazione in modo irrazionalmente diverso di situazioni eguali, fornendo alla Corte una ragione per equiparare il trattamento sanzionatorio del licenziamento senza motivazione a quello intimato in forma orale.

Il complesso delle norme indicate soffre dunque del contrasto con il cosiddetto principio di eguaglianza. In realtà, la disciplina del lavoro quale emerge dal Jobs Act segna il definitivo tramonto del principio di eguaglianza in tutti i significati intesi dall’articolo 3 della Costituzione. L’uso della locuzione “a tutele crescenti” nasconde in realtà la “disarticolazione delle tutele rimanenti”, già ampiamente falcidiate dalla Legge Fornero. La disciplina ha infatti come primo obiettivo quello di togliere ogni contrasto o tampone al libero dispiegarsi del maggiore potere economico di sfruttamento e sopraffazione datoriale all’interno del rapporto di lavoro. Si rende non solo ogni licenziamento più facile, riducendo quest’ultimo un mero costo economico. L’inversione dell’onere della prova posto a carico del lavoratore lo rende privo di reale potere processuale, di conseguenza sempre e in ogni momento ricattabile, soprattutto nelle fasi iniziali del rapporto, allorché la sua espulsione dall’attività produttiva “costa poco”.

Una situazione di tal fatta appare completamente in contrasto con quell’alto compito che veniva individuato nel secondo comma dell’articolo 3 della carta del 1948: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

Il Jobs Act è un vero percorso opposto al compito richiesto dalla norma sull’eguaglianza sostanziale: il potere di abuso economico del datore di lavoro è oggi vicino alla libertà naturale del mercato, quella in cui conta il più forte e al suo sopruso la legge è in sostanza compiacente.

Del resto, questo è il tipo di eguaglianza meramente formale che piace alla tecnocrazia europea. L’eguaglianza sancita negli articoli 20 e 21 della Carta di Nizza è infatti ben diversa dal nostro articolo 3 della Costituzione: l’articolo 20 si limita a dire che “Tutte le persone sono uguali davanti alla legge” l’articolo 21, al posto del principio di eguaglianza sostanziale, prevede un generico principio di “Non discriminazione”: “1. E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali. 2. Nell’ambito d’applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull’Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi.” Tutto qui. Nell’ambito dei diritti fondamentali dell’Unione Europea non ci si premura di rimuovere nessun ostacolo sostanziale alle disparità sociali. Lì hanno già tolto il “radar” alle classi lavoratrici, così come ogni altro mezzo per avvertire il pericolo e combatterlo. Il Jobs Act regala al datore di lavoro il potere di sparare su soggetti disarmati. Combatterlo e bloccarlo in ogni modo è dovere primo per la sanità e l’incolumità di ogni lavoratore.

26/01/15
Enzo Pellegrin
Fronte Unitario dei Lavoratori
Scudo Legale Popolare

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