Ogni tanto una notizia arriva anche dal "nuovo manifesto".
Sarà un caso, ma viene dall'ex vicedirettore, Angelo Mastrandrea, che si
messo fuori dalla nuova cooperativa di gestione, preferendo andare a
fare l'inviato a caccia di segnali veri provenienti dal profondo della
società reale.
Questo è un tuffo nel raccapricciante, in ogni caso. Che ci riporta a
Manchester 1844, alla situazione descritta magistralmente da Friedrich
Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra. Al
posto delle ragazzine imbottite di cherry per non sentire dolore,
fatica, frustrazione, orrore, abbiamo dei migranti "dopati" con
eccitanti per tenere i ritmi di lavoro alti, oppure con oppiace per non
sentire i dolori.
E per fortuna che staremmo nel "post-moderno"....
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L’ovetto che aiuta a sopportare la fatica costa appena dieci euro,
al mercato nero dello schiavismo pontino. Singh ha due
possibilità: sciogliere il contenuto direttamente in bocca
o mescolarlo al chai, il tè dei sikh. Sceglie la seconda perché «se
lo mangio fa più male, allo stomaco e alla gola». Così, di prima
mattina, quella che gli indiani di Bellafarnia chiamano «la
sostanza» cancella la fatica e i dolori del giorno precedente e si
prepara ad affrontare quello che sta per cominciare «dopato come un
cavallo», come sostiene Marco Omizzolo, un giovane sociologo che, con
l’associazione In migrazione, ha realizzato un dossier che è un
j’accuse nei confronti di padroncini e caporali del basso Lazio.
I tanti Singh dell’agro pontino – i nomi non sono di fantasia:
i sikh religiosi portano tutti lo stesso cognome, che vuol dire
«leone», mentre le donne prendono l’appellativo Kaur, «principessa» —
da queste parti lavorano quasi tutti nelle campagne, a coltivare
ortaggi in maniera intensiva, sotto il sole o in serre arroventate
che si trasformano in camere a gas quando vengono costretti
a spruzzare agenti chimici senza nessuna protezione. Sottoposti
ad angherie e soprusi, sfruttati all’inverosimile, costretti
a chiamare «padrone» il datore di lavoro, sottopagati e con il
rischio di essere derubati della misera paga mentre tornano a casa in
bicicletta. Come far fronte a tutto ciò? Racconta B. Singh in un
italiano stentato: «Io lavoro dalle 12 alle 15 ore al giorno
a raccogliere zucchine e cocomeri o con il trattore a piantare
altri ortaggi. Tutti i giorni, anche la domenica. Non credo sia
giusto: la fatica è troppa e i soldi pochi. Perché gli italiani non
lavorano allo stesso modo? Dopo un po’ ho male alla schiena, alle mani,
al collo, anche agli occhi per via della terra, del sudore, delle
sostanze chimiche. Ho sempre la tosse. Il padrone è bravo ma paga
poco e vuole che lavori sempre, anche la domenica. Dopo sei o sette
anni di vita così, non ce la faccio più. Per questo assumo una
piccola sostanza per non sentire dolore, una o due volte durante le
pause dal lavoro. La prendo per non sentire la fatica, altrimenti per
me sarebbe impossibile lavorare così tanto in campagna. Capisci?
Troppo lavoro, troppo dolore alle mani».
Eccola qui, la nuova frontiera dello sfruttamento del lavoro
migrante: gli schiavi delle campagne vengono dopati per produrre di
più e non sentire la fatica. Dall’inizio dell’anno, le forze
dell’ordine hanno sequestrato tra Latina, Sabaudia e Terracina una
decina di chili di sostanze stupefacenti: «metanfetamine»,
contenute negli ovetti spacciati soprattutto dai caporali. Ma anche
bulbi di papavero da oppio essiccati.
Nelle comunità sikh di Bellafarnia e di Borgo Hermada di tutto
ciò si parla poco. I sikh, specie se irregolari, raramente
denunciano i soprusi di cui sono vittime. Se subiscono una rapina
fanno buon viso a cattivo gioco. Lo stesso accade quando il padrone non
dà loro il dovuto o tarda nei pagamenti. Le droghe sono proibite
dalla loro religione, chi ne fa uso è restio a parlarne e quando si
decide a farlo non riesce a reprimere il senso di colpa: «Noi siamo
sfruttati e non possiamo dire al padrone ora basta, perché lui ci
manda via. Allora alcuni di noi pagano per avere una sostanza che non fa
sentire dolore a braccia, gambe e schiena. Il padrone dice lavora
ancora, lavora, lavora, forza, forza, ma dopo 14 ore nei campi com’è
possibile lavorare ancora? Per la raccolta delle zucchine
lavoriamo piegati tutto il giorno. La sostanza ci aiuta a vivere
e lavorare meglio. Ma non tutti lo fanno: solo pochi indiani la usano.
Ma a loro serve per arrivare a fine mese e portare a casa i soldi per
la famiglia», dice K. Singh. Quello delle droghe sta diventando un
vero e proprio problema sociale, in una comunità coesa,
organizzata, «operosa e silenziosa», come la definisce Omizzolo,
che mi accompagna in un tour per i campi e i paesi di questo pezzo
d’India italiana. Per definirlo, ha coniato un neologismo:
«Punjitalia».
Il residence Bellafarnia mare ne è la capitale. A pochi metri
dalle dune di Sabaudia, lontano dalla vista delle ville dei vip, vive
un pezzo della più numerosa comunità sikh dopo quella emiliana di
Novellara: 12 mila abitanti censiti ufficialmente tra questo
villaggio di seconde case per i villeggianti subaffittate agli
immigrati e l’edilizia low cost anni ’80 che già cade a pezzi e fa da
contorno al razionalismo fascista di Borgo Hermada, un pugno di
abitazioni nelle campagne di Terracina. In realtà, contando gli
“irregolari”, le presenze aumentano decisamente: 30 mila, forse
persino di più. La Flai Cgil è arrivata a distribuire ben 40 mila
casacche catarifrangenti ai lavoratori che si spostano in
bicicletta, per tentare di limitare i numerosi incidenti stradali
che li coinvolgono, soprattutto d’inverno, nelle strade di campagna
poco illuminate.
Omizzolo ha impiegato anni per conquistarsi la fiducia della
comunità, è andato con loro nei campi e ha compiuto il percorso
migratorio inverso, dall’Italia al Punjab, dove ha incontrato le
famiglie di provenienza e riannodato i fili della diaspora. Ha
raccolto le storie di sfruttamento e, con il dossier
dell’associazione In migrazione, denuncia che «per sopravvivere ai
ritmi massacranti e aumentare la produzione dei padroni italiani»
i lavoratori sikh «sono letteralmente costretti a doparsi con
sostanze stupefacenti e antidolorifici che inibiscono la
sensazione di fatica». Si tratta, spiega, di «una forma di doping
vissuta con vergogna e praticata di nascosto perché contraria
alla loro religione e cultura, oltre a essere severamente
contrastata dalla loro comunità».
«Eppure si tratta dell’unico modo per sopravvivere ai ritmi di
lavoro»: dodici ore al giorno a seminare, dissodare, raccogliere,
spruzzare veleni. Per quattro euro l’ora, nel migliore dei casi,
spesso costretti a subire torti, angherie e vessazioni dai datori di
lavoro, a volte non pagati per mesi come sta accadendo a un gruppo di
una trentina di lavoratori-schiavi che reclamano un salario che non
arriva da sei mesi. Una situazione non dissimile a quelle di Rosarno,
della Capitanata e degli altri luoghi dello sfruttamento delle
braccia in agricoltura. Solo più taciturna, poco incline alla
ribellione e meno visibile: i sikh non vivono in baraccopoli o in
rifugi di fortuna e non arrivano soli come molti africani che
sbarcano a Lampedusa. Si sposano tra loro – anche se, mi spiega
Omizzolo, cominciano a registrarsi i primi casi di matrimoni misti,
in genere tra maschi sikh e donne rumene conosciute al lavoro nei campi
— molti sono qui ormai da trent’anni e i loro figli sono italiani. Le
abitazioni sono ben tenute, nonostante accada che in quaranta metri
quadri si ammassino fino a sei persone, i giardini sono in fiore. La
domenica nel Gurdwara Singh Saba, un ex capannone agricolo
trasformato in edificio religioso, è un trionfo di colori e nelle
cucine comuni si fa da mangiare per tutti. Hanno anche un giornale, Punjab express, che trovo distribuito davanti a un negozietto al cui interno un anziano col turbante attende pigramente i rari visitatori.
Dillon Singh è il capo della comunità: gestisce uno spaccio di
generi alimentari che vende anche capi d’abbigliamento, nella
piazzetta di Bellafarnia. È un politico – in India è stato molto
vicino a Indira Gandhi, la premier assassinata da due guardie del
corpo sikh nel 1984 — e in questi giorni è inquieto perché il nuovo
centro religioso, il cui progetto è affisso alle vetrate del tempio,
si è bloccato. Questione di permessi e varianti urbanistiche, ma
soprattutto di intralci burocratici frapposti dalla destra che
regge il comune. È preoccupato perché dovrà dar conto alla comunità
dell’utilizzo delle risorse raccolte: «Abbiamo raccolto i soldi ma
non riusciamo ad andare avanti. Finirà che le persone torneranno
a mandare le rimesse in Punjab invece di investire i loro guadagni
in Italia», osserva sconsolato.
Alla fine di febbraio, nascosti tra i cassoni di frutta e verdura
trasportati da due indiani, i finanzieri di Sabaudia hanno trovato
6 chili di bulbi di papavero e 300 grammi di anfetamina. Altri tre
chili e mezzo sono stati sequestrati nel bagagliaio di un’auto ed
è stata scoperta persino una piccola piantagione di papavero da
oppio a Terracina. Chi gestisce il business? «Gli italiani danno la
sostanza agli indiani, che a loro volta la vendono e danno i soldi
agli italiani», spiega K. Singh. Vuol dire che a monte del traffico ci
sarebbero datori di lavoro che affiderebbero il lavoro sporco ai
caporali, consegnandogli la «roba» perché a loro volta la vendano
agli schiavi delle campagne.
In alcuni casi, però, a gestire la vendita al dettaglio sono
direttamente «gli italiani». A sostenerlo è H. Singh: «Conosco
persone che usano questa sostanza. Le comprano da italiani e loro la
utilizzano quando lavorano oppure la danno ad amici. La sciolgono
nell’acqua calda e poi la bevono. Si può anche mangiare ma fa male allo
stomaco e alla gola». Accade persino che, fiutata la possibilità
di ritagliarsi una torta del piccolo business, alcuni lavoratori
rivendano a loro volta le droghe acquistate. Racconta S. Singh:
«Alcuni indiani, soprattutto giovani che lavorano nelle campagne,
le comprano per non sentire i dolori, però poi ne rivendono una
parte. Così fanno un po’ di soldi e allo stesso tempo la sera non si
sentono stanchi e possono uscire. Da dove vengono queste sostanze?
Alcuni le portano dall’India, altri le comprano da italiani». Che in
questo modo guadagnano due volte, dallo spaccio e dallo
sfruttamento del lavoro.
da ilmanifesto.it