sabato 26 luglio 2014

pc 26 luglio - Le violenza dei soldati americani a Vicenza

un lungo articolo, in seguito alla denuncia dello stupro subito con tanto di pestaggio, borseggio e abbandono in un campo in stato di semincoscienza, da una ragazza nei giorni scorsi che cerca di analizzare la presenza dei militari USA a Vicenza, la lunga serie di violenze che la caratterizza e la sostanziale impunità di cui godono. Ne emerge un quadro di sostanziale "tolleranza", di facilità con cui i militari statunitensi non vengono processati in Italia, quando di non insabbiamento. Di più, dall'articolo sembrerebbe quasi giustificato, comprensibile che i militari USA possano "lasciarsi andare"in virtù di un sostanziale isolamento in cui sarebbero tenuti. La realtà dei fatti dice tutt'altro: che vivono in condizioni di privilegi, con una mentalità da colonizzatori, con concezioni maschiliste, razziste che nei militari sono  fortemente radicate.
La coraggiosa denuncia della ragazza- doppio, triplo coraggio perchè giovane, perchè immigrata, perchè prostituta, perchè in una città che tante volte ha subito in silenzio- ha avuto il merito di squarciare il velo di sostanziale impunità. Non permettiamo che ricada nuovamente
mfpr- Milano

di Leonardo Bianchi: (da Vice.com)

L’anno scorso, dopo un lungo periodo di contestazioni e proteste, sono finiti i lavori della nuova caserma americana Del Din. Vicenza è così diventata, di fatto, una città chiusa tra due basi militari che conta oltre 12mila cittadini statunitensi su una popolazione complessiva di 113mila abitanti.
Nonostante questi numeri, nel capoluogo berico la presenza di una comunità Usa così estesa è praticamente invisibile. Ogni tanto, però, si verificano fatti di cronaca che gettano un’ombra sul comportamento di alcuni soldati americani.
Quello più recente è avvenuto la sera del 14 luglio 2014. Due parà americani di stanza alle caserme Ederle e Dal Molin di Vicenza caricano sulla loro macchina una prostituta romena di 24 anni incinta al sesto mese. I soldati le propongono un rapporto a tre e la portano in una zona periferica di Vicenza ovest. È in quel momento che, secondo quanto riportano i giornali locali, iniziano le violenze.
I militari sequestrano la ragazza per oltre due ore: la picchiano a sangue, la stuprano, la derubano e infine l’abbandonano in mezzo a un campo in stato di semi-incoscienza. La vittima riesce a memorizzare la targa dell’auto e trova le forze per chiamare una sua amica, con la quale si reca in ospedale in gravi condizioni e sporge denuncia.
I due soldati sono identificati in fretta: si chiamano Edil McCough e Jerelle Lamarcus Gray. Quest’ultimo non è un nome nuovo per le forze dell’ordine e la magistratura italiana: il militare, infatti, è già indagato per violenza sessuale e sequestro di persona nei confronti di una minorenne vicentina. L’episodio risale al novembre del 2013. La ragazza aveva conosciuto Gray in una discoteca vicino alla Ederle. Stando alla sua testimonianza, una volta uscita dal locale il soldato, ubriaco, l’ha seguita e “con una scusa mi ha portato in un viottolo poco lontano e quindi mi ha aggredita. Mi ha tappato la bocca e mi ha violentata con brutalità.”
All’epoca la Procura aveva richiesto il fermo, ma il giudice “non ha accolto la richiesta [...] non ritenendo probabilmente che il giovane possa reiterare il reato, alla luce anche del fatto che sarà trasferito da Vicenza quanto prima.” Anna Silvia Zanini, avvocato della minore vicentina, ha riferito pochi giorni fa che “il militare aveva da poco ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini preliminari.”
Dopo le violenze sulla prostituta romena, Gray avrebbe tentato il suicidio. È per questo che attualmente si trova, piantonato da due superiori, all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Ma non è in stato di fermo: come ha confermato anche il maggiore Mark Weisman, “le autorità italiane per ora non hanno deciso di prendere in custodia i soldati.”
Non si sa ancora dove Gray e McCough saranno processati. In base all’articolo 7 della Convenzione di Londra del 1951 i militari Nato possono essere giudicati nel paese di appartenenza—dietro apposita richiesta—invece che in quello in cui è commesso il reato.
La Convenzione, tuttavia, non prescrive il criterio in base al quale un governo debba prendere una decisione. Il procuratore capo di Vicenza, Antonio Cappelleri, tempo fa aveva candidamente ammesso che “il criterio è la convenienza politica”; e anche l’ufficio cooperazione internazionale del Ministero della Giustizia aveva fatto sapere che “le richieste vengono accolte quasi sempre perché la convenzione Nato chiede di valutarle con benevolenza.”
L’esercito americano ha immediatamente richiesto la giurisdizione esclusiva sul caso in base agli accordi internazionali. Per ora, però, il pm Silvia Golin ha respinto la richiesta di trasferimento all’estero dei due soldati. L’intenzione è quella di processarli a Vicenza, dal momento che si tratta di un reato comune che non è legato allo status di militari stranieri.
Il 23 luglio anche il sindaco di Vicenza, Achille Variati, è intervenuto sulla questione chiedendo al ministro della giustizia Andrea Orlando che il giudizio si celebri in Italia.
Ma non è così scontato che questo succeda. Secondo un’inchiesta de Il Fatto Quotidiano di qualche mese fa, nell’ultimo anno e mezzo l’Italia avrebbe rinunciato a esercitare la giurisdizione nella stragrande maggioranza dei casi—91 su 113.
Per citare quelli più recenti che coinvolgono Vicenza, nell’agosto del 2013 lo stato italiano aveva rinunciato a processare tre militari americani che avevano investito e ferito un gruppo di pedoni nel centro della città, senza poi fermarsi a prestare soccorso. Il 27 febbraio 2014, dopo ben otto anni di tentennamenti, si è deciso di non esercitare la giurisdizione italiana nei confronti dei militari Louis Carrasquillo e David Michael Simon, che la sera del 2 dicembre del 2006 si erano messi a gareggiare per le strade del centro mettendo in serio pericolo gli automobilisti.
Le polemiche, però, non si placano nemmeno quando il processo viene eccezionalmente celebrato in Italia. Un caso che ha fatto molto discutere è stato quello del parà James Michael Brown. Il 22 febbraio del 2004, dopo essere tornato a Vicenza da una missione in Iraq, il soldato americano aveva picchiato, ammanettato e brutalmente violentato una prostituta nigeriana.
Il Tribunale di Vicenza lo aveva condannato nel 2006 a cinque anni e otto mesi di carcere (di cui Brown ha scontato un anno in custodia cautelare, prima di essere mandato in Germania e infine rispedito negli Stati Uniti) e a 100mila euro di risarcimento. A Brown erano state riconosciute le attenuanti generiche (e il relativo sconto di pena) con questa motivazione: “Appare verosimile che l’imputato, nella commissione dei reati, sia stato influenzato da atti di violenza cui ha assistito in Iraq e che nulla avevano a che fare con la necessaria violenza bellica.”
Come si vede, il caso di stupro avvenuto la settimana scorsa non è isolato: è solo l’ultimo di una lunga serie di violenze e comportamenti sopra le righe che vedono protagonisti i militari statunitensi. Gli archivi del Giornale di Vicenza e diverse rassegne online sono infatti piene di casi di risse, aggressioni, ubriachezza, sfregi e abusi sessuali.
Queste vicende, del resto, evidenziano come l’impatto delle basi su Vicenza non sia solo di tipo economico o ambientale—come il movimento di protesta No Dal Molin ha sempre denunciato—ma anche sociale. Le ragioni sono molteplici, e non necessariamente hanno a che fare con le condizioni psicologiche dei soldati di ritorno da scenari di guerra.
Secondo Martina Vultaggio, che fa parte dell’assemblea permanente “We Want Sex” (una delle sigle organizzatrici del sit-in di protesta tenutosi il 22 luglio 2014 di fronte alla base), ci troviamo di fronte a “stranieri non integrati,” nel senso che “la vita in base è molto distaccata rispetto a quella della società che la ospita.”
I soldati, a meno che non decidano di rimanere in Italia in pianta stabile, “sono di stanza per cinque anni al massimo.” In più, “i contatti con la popolazione locale sono minimi. Gli americani hanno i ‘loro’ locali e frequentano dei circuiti diversi. Non c’è un reale contatto.” Di qui, sempre secondo Vultaggio, può svilupparsi “l’idea di poter agire un po’ come dei turisti: usando la città che ti ospita e approfittando della situazione.”
La Setaf (acronimo per Southern European Task Force), prosegue Vultaggio, è ben consapevole delle condotte a rischio dei soldati di stanza a Vicenza e, oltre a programmi di supporto psicologico, non esita a “intervenire duramente con la Military Police, perché comunque vuole dimostrare di avere il polso della situazione e di saper sedare i disordini.” Ma al contempo, conclude Vultaggio, “non è possibile che una base militare sponsorizzi l’impunità.”
La questione è: quanto sono diffusi certi comportamenti? E fino a che livello arrivano? Un episodio altamente significativo si è verificato il 3 luglio del 2013, al termine dei festeggiamenti per l’Independence Day.
Il colonnello David Buckingham, comandante della base Dal Molin, era stato fermato dalla Military Police per oltraggio e resistenza. Secondo il Giornale di Vicenza, “il comandante avrebbe bevuto un bicchiere di troppo [circostanza mai confermata dal Comando militare] e, quando gli hanno fatto notare che in quello stato non poteva guidare, avrebbe cercato di forzare il posto di blocco.” A seguito dell’incidente il colonnello è stato rimosso dall’incarico.
Tuttavia, raramente notizie che riguardano le violenze in divisa oltrepassano i confini di Vicenza e si impongono all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale. Secondo Cristiana Catapano, attiva nel movimento No Dal Molin e tra i curatori del libro Wars on demand, “i casi di violenza all’esterno della base vengono nascosti il più possibile.”
Nonostante le ripetute proteste di questi anni, sia per la costruzione della base che per questi fatti di cronaca, secondo Catapano c’è comunque “una parte di popolazione che si indigna più facilmente se lo stupro e la violenza vengono causati da un altro tipo di cittadino straniero, perché comunque il cittadino americano è ancora visto come una persona che fa del bene e rafforza la sicurezza della città. Ma quale tipo di sicurezza può portarmi un cittadino americano che commette certi atti?”
La poca rilevanza data a questo genere di notizie può anche derivare dal fatto che molte vittime sono cittadini stranieri, prostitute o soggetti già marginalizzati. “Si fa moltissima fatica a denunciare casi del genere,” afferma Catapano. “Ce l’hanno fatta alcuni italiani che hanno provato ad andare fino in fondo. Alcuni sono stati risarciti, di altri non si conosce l’esito dei processi perché questi sono stati trasferiti negli Stati Uniti.”
Il quadro è ulteriormente complicato dall’atteggiamento delle istituzioni italiane, che quasi sempre “si liberano molto volentieri di questi processi”. O non ne sono addirittura a conoscenza. Lo scorso marzo, ad esempio, l’ex vicesindaco di Vicenza e deputata del PD Alessandra Moretti aveva dichiarato: “Non sapevo dei reati gravi commessi attorno alla base.”
In tutto ciò, mentre la vicenda processuale dei due soldati americani si sta velocemente trasformando in uno scontro diplomatico, l’ultimo caso di stupro dimostra ancora una volta che i rapporti tra la città di Vicenza e le basi militari statunitensi sono ancora molto lontani dall’essere idiallici.

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