sabato 26 gennaio 2013

pc 25-26 gennaio - Sicilia: 5 operai delle ferrovie uccisi dall' amianto- rinvio a giudizio per 11 ex dirigenti assassini


25/01/2013 -

Erano in servizio tra gli anni 80 e 90. Sono accusati 
di omicidio colposo nei confronti di cinque operai 
che lavorarono con materiali in amianto e che 
morirono per tumore ai polmoni



PALERMO. La Procura ha chiesto al gup Marina Petruzella il rinvio a giudizio di undici ex dirigenti delle Ferrovie in servizio in Sicilia tra gli anni Ottanta e Novanta, indagati con l'accusa di omicidio colposo nei confronti di cinque operai che maneggiarono materiali in amianto e che
morirono successivamente a causa di tumori ai polmoni.

Rischiano il processo Giovanni Coletti, ex direttore generale dell'azienda autonoma Ferrovie dello Stato tra il 1985 e il 1989, Leonardo Vivona, dirigente responsabile del deposito locomotive tra il 1990 e 1999, e i capiofficina che si sono succeduti dal 1974 al 1994: Lucio Lombardi, Tommaso Giovenco, Francesco La Ferrera, Isidoro Scianna, Giuseppe Fuschi, Francesco Di Maio, Roberto Renna, Francesco Barbarotta e Giampiero Cardinale.

I familiari delle vittime si sono costituiti parte civile, come l'Inail e la Cgil. Il processo è stato rinviato al 15 marzo. 

http://www.gds.it/gds/edizioni-locali/palermo/dettaglio/articolo/gdsid/237698/

pc 25-26 gennaio - si intensifica la repressione poliziesca contro i No Muos in lotta


Sicilia: la repressione contro i No Muos

Sicilia: la repressione contro i No Muos
ROMA - Ieri le forze dell’ordine hanno effettuato perquisizioni, identificazioni e notificazioni di fogli di via, nei confronti degli attivisti No Muos presenti al presidio di Niscemi. Anche le mamme, che si erano attivate per fare i blocchi, hanno subito un trattamento indecente.

26/01/2012

Dal Comitato NO MUOS Niscemi

E la repressione alza il tiro...Questa mattina le forze dell'ordine hanno effettuato PERQUISIZIONI, BLOCCHI, IDENTIFICAZIONI nei confronti degli attivisti presenti al presidio. Anche le mamme, che si erano attivate per fare i blocchi e le barricate, erano presenti e hanno subito un trattamento indecente. Sono stati NOTIFICATI INOLTRE 5 FOGLI DI VIA AI COMPAGNI DEL PRESIDIO! 
Esprimiamo MASSIMA SOLIDARIETA' AI COMPAGNI e denunciamo un accanimento delle forze dell'ordine contro il presidio e tutto ciò che questo rappresenta in difesa di interessi che non sono quelli dei cittadini! 
RESISTEREMO, ORA E SEMPRE...

giovedì 24 gennaio 2013

pc 24 gennaio - assemblea a roma 25 gennaio su Ilva e non solo




pc 24 gennaio - il regime fascista turco è il vero terrorismo.. a parigi uccide, a Istambul condanna


Dopo la retata contro gli avvocati della scorsa settimana e la richiesta di 21 anni di carcere per un'Erasmus francese, la magistratura turca processa per la quarta volta una sociologa accusata di collaborare con il PKK. E la condanna all'ergastolo. Ma secondo le perizie l'attentato di cui è accusata fu un'esplosione accidentale.


Sono quasi cento gli osservatori internazionali che hanno assistendo oggi a Istanbul al quarto processo - sempre per gli stessi fatti - contro la nota sociologa di sinistra Pinar Selek, che ora vive in esilio in Francia, a Strasburgo. La donna è stata accusata dalla magistratura turca di complicità in un'esplosione che causò sette morti nel 1988 al Bazar delle Spezie della città sul Bosforo.
Selek era già stata assolta tre volte - nel 2006, nel 2008 e nel 2011 - e la matrice terroristica dell'esplosione, a suo tempo attribuita al Pkk, è stata di fatto smentita. Già nel 2000 una perizia ne aveva attribuito l'origine a una fuga di gas accidentale.

E nel pomeriggio, a dimostrazione del carattere pilotato del procedimento penale, la donna è stata condannata all'ergastolo. La sentenza ha provocato reazioni di sgomento e di indignazione fra i suoi numerosi sostenitori presenti nell'aula del processo. Ci sono state grida ''fascisti! fascisti!'' da parte di alcune attiviste straniere rivolte ai giudici.
La decisione di sottoporla a un nuovo processo e di annullare i tre procedimenti precedenti presa alla fine dell'anno scorso dalla Corte di Cassazione turca aveva già provocato forti polemiche sia in Turchia sia nel resto del mondo.
Numerosi artisti e intellettuali laici e di sinistra si sono mobilitati nel paese in difesa della nota sociologa. L'attrice Deniz Turkali ha ad esempio denunciato pubblicamente quello che ha definito un 'processo farsa'.
Anche il sindaco di Strasburgo, il socialista Roland Ries, si é schierato a fianco della sociologa turca, denunciando ''l'accanimento giudiziario di alcuni magistrati, per motivi politici''. Numerosi comitati di solidarietà con l’intellettuale turca si sono costituiti negli ultimi anni in tutta Europa. 
Pinar Selek, allora giovane sociologa nota per le ricerche sulle minoranze, in particolare sui curdi, fu arrestata nel 1998 per collaborazione con il Pkk, dopo aver pubblicato alcune interviste agli esponenti della formazione curda. Nonostante le torture subite ed il carcere duro non confessò i nomi dei dirigenti della guerriglia che aveva incontrato e dopo un mese fu accusata di avere aiutato il Pkk ad organizzare il presunto attentato. Nel 2000, dopo la pubblicazione della perizia che definiva di origine accidentale l'esplosione, era stata scarcerata.
La Selek giudicando iniquo e pilotato il processo nei suoi confronti ed avendo già scontato ingiustamente ben due anni e mezzo di carcere nel 2009 è espatriata in Francia ed ha deciso di non tornare in Turchia per assistere al procedimento.
La sentenza di condanna all'ergastolo arriva oggi dopo l’ondata di arresti che la scorsa settimana ha portato all’arresto di parecchie decine di avvocati aderenti a un’associazione di legali progressisti, di artisti della band Grup Yorum, di giornalisti, insegnanti e studenti universitari. Nei giorni scorsi un altro tribunale turco aveva chiesto 21 anni di carcere per una giovanissima studentessa francese di origini turche, accusata di collaborare con una organizzazione di estrema sinistra fuorilegge.

da marco santopadre - contropiano

pc 24 gennaio - gli arresti di napoli confermano perchè sciogliere il gruppo fascista 'casa pound'- chiudere le sedi

Napoli, arrestati estremisti di destra.
volevano stuprare studentessa ebrea
"Si ispiravano a Mein Kampf di Hitler"

I carabinieri del Ros hanno eseguito dieci provvedimenti cautelari, emessi nei confronti di esponenti dell'estrema destra partenopea, ritenuti responsabili tra l'altro di banda armata, detenzione e porto illegale di armi e di materiale esplosivo, lesioni a pubblico ufficiale e attentati incendiari. Si indaga sul movimento di estrema destra Casapound, ma anche su altre formazioni.

LE AGGRESSIONI - Le indagini, legate agli scontri tra gruppi di destra e di sinistra a Napoli nel 2011, hanno consentito di documentare numerose aggressioni nei confronti di avversari politici e la sistematica attività di indottrinamento dei giovani militanti all'odio razziale e all'antisemitismo.

L'operazione è scattata nelle province di Napoli, Salerno e Latina e riguarda un'associazione sovversiva riconducibile a esponenti della destra extraparlamentare di Napoli. I provvedimenti cautelari sono stati emessi dal gip di Napoli su richiesta della Direzione distrettuale nei confronti dei maggiori esponenti dell'organizzazione. Sono accusati di aver organizzato e pianificato scontri di piazza nella primavera del 2011 a Napoli.

GLI ATTENTATI - I destinatari delle misure cautelari sono accusati anche di lesioni, aggressione a pubblico ufficiale e riunione non autorizzata in luogo pubblico, progettazione e realizzazione di attentati con lancio di bottiglie incendiarie contro un centro sociale di Napoli, manifestazioni non autorizzate presso la Facoltà di Lettere, aggressioni di tipo "squadrista" contro avversari politici e sistematico indottrinamento di giovani militanti all'odio etnico e all'antisemitismo.

"MEIN KAMPF" - "Mein Kampf" di Adolf Hitler era al centro di riunioni di alcuni dei fermati. Gli indagati - afferma il Procuratore aggiunto di Napoli, Rosario Cantelmo, in una nota - erano dediti tra l'altro "alla sistematica attività di indottrinamento dei giovani militanti all'odio etnico e all'antisemitismo mediante riunioni in cui si discuteva, tra l'altro, anche dei contenuti del libro 'Mein Kampf' di Adolf Hitler".

LA FIGLIA DI FLORINO - Tra gli arrestati c'è anche Emanuela Florino, 26 anni, figlia di un ex senatore prima dell'Msi e poi di An, tra gli esponenti di spicco a Napoli del movimento Casapound. Emanuela Florino, agli arresti domiciliari, è anche candidata nella prossima tornata elettorale nelle liste di Casapound.

LO STUPRO A STUDENTESSA EBREA - Alcuni degli indagati nell'ambito dell'inchiesta sul movimento Casapound progettavano di violentare una studentessa universitaria ebrea: è quanto emergerebbe da intercettazioni telefoniche contenute nell' ordinanza di custodia cautelare. Nelle conversazioni si parlava anche della possibilità di dare fuoco a un'oreficeria di proprietà di un ebreo. Nel corso dell'operazione, i carabinieri hanno sequestrato la sede in cui gli indagati si riunivano, l'ex sezione "Berta" del Msi in via Foria, a Napoli.

Colpiscono per la particolare violenza e crudeltà le intercettazioni dei colloqui tra indagati sul mancato stupro. Picchiare o violentare una ragazza ebrea perchè era stimata persino dai palestinesi: è il proposito espresso da uno dei frequentatori della sezione "Berta".

Dell'argomento si discusse in una conversazione intercettata il 15 dicembre 2011. "Da me in facoltà - esordisce Angelo D'Alterio - ci sta una che non la tocca nessuno, non la guardano nessuno perchè non so di quale tribù fa parte. Tribù ebraica". Si inserisce Andrea Coppola, leader di "Blocco studentesco": "Se tu vedi, questa passa e tu vedi tutti gli israeliani, pure i palestinesi, cioè i palestinesi... Gli arabi che la salutano con rispetto proprio... La cosa infatti mi sta facendo stizzire troppo. Infatti io a questa la devo vattere (picchiare, ndr). O la picchio o me la chiavo e gli faccio uscire il sangue dal c... Però davanti a tutta la facoltà".

GLI ARRESTATI  - Oltre ad Emmanuela Florino, il gip ha concesso i domiciliari ad Aniello Fiengo, Giovanni Senatore, Giuseppe Guida e Massimo Marchionne; in carcere Enrico Tarantino e Giuseppe Savuto, anche lui candidato al collegio Campania 1 della Camera; obbligo di dimora per Raffaele Palladino, Andrea Coppola e Alessandro Mennella.

pc 24 gennaio - strage di viareggio - operaio licenziato dice no alla resa alle FS responsabili della strage



Lo avevano licenziato perché si era offerto come "perito di parte" dei familiari delle vittime della strage di Viareggio. Poi le Fs gli avavenao proposto una "transazione": ti riassumiamo se lasci perdere. Ma lui non ha firmato: si andrà a processo.



La lettera inviata da Riccardo a famiiari, macchinisti, strutture di movimento.


"Ho preferito non barattare la mia dignità con il reintegro al lavoro": Riccardo Antonini non ha firmato l'accordo di conciliazione proposto da Ferrovie dello Stato e continua la vertenza contro Mauro Moretti che ne aveva disposto il licenziamento due anni fa, per aver sostenuto come consulente tecnico, nell'incidente probatorio del processo sulla strage di Viareggio, uno dei familiari delle 32 vittime e la Cgil. Già fissata la prossima udienza: l'11 marzo alle 10, al tribunale di Lucca.

"Era un accordo al ribasso – ha spiegato Antonini – il mio licenziamento veniva convertito in due sospensioni da 10 giorni ciascuna; in cambio, dovevo ammettere di aver tenuto un comportamento grave e offensivo nei confronti di Moretti. Non me la sono sentita". I fatti si riferivano sia alla consulenza gratuita sia alle critiche rivolte da Antonini all'Ad di Fs, durante una manifestazione del Pd a Genova.

Ha ammesso di aver trascorso la notte in bianco, Antonini, riflettendo su quella proposta che per alcuni versi ricorda l'accordo offerto (e accettato) da Dante De Angelis, altro ferroviere licenziato per aver criticato la sicurezza della circolazione ferroviaria.

“Non me la sono sentita di barattare la mia dignità per 20 mila euro – ha dichiarato – non so se ho sbagliato ma questa è la mia decisione e sono convinto di quello che ho fatto. Partirò in posizione di svantaggio, al processo, perché ho rifiutato la conciliazione. Vedremo a chi daranno ragione i fatti”.

Già fissata la prossima udienza, in cui il processo entrerà nel vivo: l'11 marzo alle 10, al tribunale di Lucca, sfileranno davanti al giudice Luigi Nannipieri testimoni di Fs e Antonini. Poi si andrà a sentenza.


da QuiVersilia.it



pc 24 gennaio - sciogliere il reparto degli sbirri nmassacratori di Bologna !

 


Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato? Da Bologna un appello alla società civile dopo l'assoluzione a Verona, lo scorso 18 gennaio, di 8 agenti accusati di aver massacrato di botte e reso invalido, senza motivo, Paolo Scaroni.
Il 18 gennaio 2013 il Tribunale di Verona ha assolto 8 agenti del VII Reparto mobile di Bologna (Luca Iodice, Antonio Tota, Massimo Coppola, Michele Granieri, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Vladimiro Rulli e Giuseppe Valente) dall’accusa di lesioni gravissime ai danni di Paolo Scaroni, ultras del Brescia 1911 che il 24 settembre 2005 nella stazione di Porta Nuova ha rischiato di essere ucciso nel corso di cariche ingiustificate contro i tifosi in rientro dalla trasferta. Oggi Paolo è totalmente invalido e non si sa neppure se potrà essere avviata una causa per il risarcimento del danno.
Sette degli agenti imputati sono stati assolti dal giudice Guidorizzi per insufficienza di prove, l’ottavo perché il fatto non sussiste.
Al momento della lettura della sentenza alla rabbia e all’abbattimento di Paolo, dei suoi familiari e degli oltre 500 tifosi giunti da ogni dove per supportarlo hanno fatto da contraltare gli abbracci e gli sguardi di soddisfazione dei celerini prosciolti. Criminali che purtroppo indosseranno ancora la divisa, impugneranno un manganello (magari al contrario come avvenuto quel giorno) e una pistola.
Non sono ancora note le motivazioni di questa vergognosa sentenza, ma alcune cose le sappiamo:
-          sin dall’inizio ci sono stati tentativi di depistaggio e se l’inchiesta ha preso il via è stato solo grazie all’ausilio di una coraggiosa e testarda poliziotta della Polfer,
-          la sentenza di assoluzione per “insufficienza di prove” è stata sicuramente facilitata dal fatto che i celerini non fossero identificabili a causa del casco con la visiera e il fazzoletto bordeaux con cui sono soliti mascherare il volto in questo tipo di “azioni”;
-          la prova principale che poteva inchiodare i colpevoli, ovvero il video con le riprese delle cariche girato dalla scientifica, è stato tagliato: un taglio di dieci minuti… esattamente quelli in cui Paolo viene massacrato. Tagliato anche nel finale il commento di due agenti: “adesso il questore ci inc…”, “ascolta, tu prova a guardare subito le immagini di quando il…”. Dieci minuti “di buco” di cui nessuna indagine interna da parte della polizia ha inteso accertare le responsabilità;
-          la vicenda di Paolo Scaroni è soltanto una delle purtroppo numerose e documentate storie di abusi che vedono come protagonisti agenti e dirigenti del VII Reparto mobile di Bologna.
In relazione a quest’ultimo punto abbiamo ragione di supporre che condannare a Verona un’intera squadra del VII Reparto mobile di Bologna, forse avrebbe messo in difficoltà mandanti e protettori di questo corpo speciale. Una sentenza di condanna avrebbe avvalorato ulteriormente le denunce che già circolano e che si stanno facendo largo presso un pubblico più ampio.
Avrebbe avvalorato ulteriormente un interrogativo che già oggi molti pongono in maniera aperta: è davvero possibile parlare solo di mele marce, quando esse sono così tante all’interno di uno stesso Reparto? Come è possibile che nessuno all’interno della Magistratura si sia finora posto il problema di indagare se qualcosa non va nella catena di comando di questo Reparto e nel tipo di addestramento che esso riceve? Il VII Reparto mobile in che modo potrebbe ricondurre ai tanti interrogativi irrisolti “sull’eclissi della democrazia” che si verificò a Genova nel 2001?  
Ricordiamo alcuni episodi che hanno visto protagonista il VII Reparto mobile di Bologna.
Al G8 di Genova uno dei corpi speciali al lavoro era il VII Reparto mobile di Bologna ed esso divenne tristemente celebre anche per una maglietta indegna che i celerini si fecero stampare per ricordare l’evento (quella con l’immagine di un poliziotto che schiaccia a terra un manifestante e la scritta A GENOVA C’ERO ANCHE IO).
Per gli arresti illegali di due pacifisti spagnoli compiuti sempre durante il G8 di Genova sono stati condannati in via definitiva a quattro anni (ridotti a uno per l’indulto) 4 poliziotti del VII Reparto mobile di Bologna (Luciano Beretti, Marco Neri, Simone Volpini e Antonio Cecere), mentre chi dava loro gli ordini (Luca Cinti, uno dei tanti promossi di Genova) si trova oggi sotto processo per falsa testimonianza (la prossima udienza è prevista per il 22 febbraio 2013). Luca Cinti testimoniò in aula di aver assistito all’arresto e che uno dei due arrestati aveva in mano una spranga, ma un filmato ha dimostrato che i due manifestanti erano assolutamente disarmati e inermi al momento del fermo.
Cinque poliziotti del VII Reparto mobile di Bologna sono stati condannati per abuso d'ufficio, rissa, calunnia, falso ideologico (e uno anche per lesioni personali) per una rissa all'uscita di una discoteca di Casalecchio nel 2008 scaturita dalle offese da essi rivolte contro tre nomadi.
Sono note a Bologna le cariche particolarmente violente contro gli studenti e gli indignados in cui più di una volta (altra coincidenza) sono rimaste ferite ragazze giovani colpite alle spalle: il caso di Martina Fabbri, di cui riproponiamo l'intervista, è uno dei più conosciuti e anche per esso l’identificazione del colpevole è stata resa ardua dalla reticenza e dall’omertà dei componenti della squadra che attuò la carica e dalla mancanza di un numero identificativo sulle divise degli agenti in tenuta antisommossa.
Ricordiamo anche che Bologna è la città in cui ha operato la “Uno Bianca” e che di possibili spinte interne ai vari apparati contrarie a una riforma in senso “democratico” della polizia hanno parlato non molto tempo addietro Gigi Notari del Direttivo nazionale Siulp  e il giudice Giovanni Spinosa, ex pm della procura di Bologna che per primo venne incaricato di seguire l’inchiesta.
Noi crediamo che tutta la società civile debba essere coinvolta nel far luce su vicende, fatti e responsabilità che assieme alla mancanza di un codice identificativo per le forze dell’ordine e del reato di tortura contribuiscono a far sì che gli autori di gravissimi abusi, quando non di veri e propri omicidi (e c’è mancato davvero poco perché anche Paolo Scaroni venisse annoverato tra questi ultimi) rimangano impuniti, rinfrancati nel loro agire criminale da sentenze come quelle di Verona.
Chiediamo alle vittime di abusi di polizia, ai familiari delle vittime, alle Associazioni che si battono perché tali nefandezze non abbiano più a succedere (lo chiediamo in particolare all’Associazione “Le loro voci”, al “Comitato Verità e Giustizia per Genova”, ad “Antigone”, all’“Osservatorio sulla Repressione del PRC”, all’Associazione “A Buon Diritto”)
- di prendere posizione su questo tema
- di presentare un esposto alla Procura di Bologna perché apra una seria inchiesta sugli episodi di abusi che riguardano il VII Reparto mobile di Bologna per accertare possibili collegamenti e responsabilità nella catena di comando
- di far pressioni perché il VII Reparto mobile di Bologna venga sciolto.
Chiediamo ai parlamentari di presentare interrogazioni al riguardo e ai candidati progressisti che alzano la bandiera della “legalità” e del rispetto della Costituzione di utilizzare la visibilità di cui godono per contribuire a questa battaglia di democrazia.
Chiediamo anche agli ultras che sono stati vicini a Paolo, che sono vicini a quanti altri sono caduti vittime di abusi di polizia, di far propria la battaglia per l’introduzione del codice identificativo e del reato di tortura e per lo scioglimento del VII Reparto mobile di Bologna. L’ingiustizia subita da Paolo, gli striscioni esposti per lui in ogni stadio, i tifosi presenti il 18 gennaio a Verona hanno mostrato che è possibile unire “in nome della Verità e della Giustizia” persone che normalmente si professano rivali.
Se ieri avete fatto 100, oggi cercate di fare 200!
Quella per l’introduzione del codice identificativo e del reato di tortura e per lo scioglimento del VII Reparto mobile di Bologna è una battaglia di civiltà che ci riguarda tutti.
Chiediamo a tutta la società civile di riprendere e porre con forza anche questa domanda: “Cosa deve ancora accadere perché il VII Reparto mobile di Bologna venga smantellato?”.
  
Milano, 22.01.13

pc 24 gennaio - PRESIDIO-TENDA ALL'ILVA DEI CASSINTEGRATI

Questa mattina dalle ore 9 si sono ritrovati davanti alla port. A più di 60 operai ilva cassintegrati, appoggiati dallo Slai cobas per il sindacato di classe e dall'Usb.
 
Molte discussioni, all'inizio anche un pò di rabbia e sfiducia per non essere in tanti a fronte di 2400 in cassintegrazione e delle notizie molto negative da parte dell'azienda di nuova cig per 8/9 mila operai.
 
Poi si è tenuta un'assemblea tra tutti i presenti, in cui si è deciso di iniziare dal pomeriggio un presidio-Tenda permanente, per una settimana sempre alla port. A, insieme ad un volantinaggio a tutte le portinerie e a tutti i turni di un volantino dei "cassintegrati e lavoratori in sciopero Ilva", per informare e fare appello a tutti i lavoratori ad unirsi, perchè - tra minacce di massiccia cassintegrazione e di non pagamento stipendio - quello che sta accadendo all'Ilva riguarda tutti. L'appello è anche rivolto a tutte le rappresentanze sindacali a portare avanti iniziative comuni di mobilitazione, in particolare, come è emerso nellìassemblea di stamattina, una manifestazione a Roma.
 
Lo Slai cobas per il sindacato di classe appoggia il presidio dei cassintegrati e lavoratori in sciopero e ritiene che in caso la situzione nei prossimi giorni dovesse peggiorare, passando, da parte dell'azienda, dalle minacce ai fatti, occorre rispondere subito con la lotta di massa, il blocco della fabbrica e lo sciopero generale all'insegna della parola d'ordine: "O tutti gli operai dentro", "O tutti gli operai fuori a lottare insieme".
 
L'UNITA' OPERAIA E' LA NOSTRA FORZA IN QUESTA FASE DIFFICILE!
 
Slai cobas per il sindacato di classe - Ilva Taranto
 
24.1.13

pc 24 gennaio - Assemblea nazionale Rete a Taranto: interventi di operaio Ilva, del'USI-Usicons di Roma e dello Slai cobas psc di Taranto


proseguiamo la pubblicazione degli interventi all'assemblea Rete del 7 dicembre


LORENZO SEMERARO  
SLAI COBAS ILVA

Sono un operaio Ilva, collega di Claudio, anche se non lavoro nello stesso reparto. Ho condiviso lo sciopero che hanno autorganizzato gli operai del MOF perché lo ritenevo giusto, non solo in solidarietà con il nostro collega, ma anche per far decadere un accordo che i sindacati firmarono con l’azienda nel 2010 che permetteva la presenza di un solo operaio nelle manovre ai trasporti ferroviari in Ilva, e a causa del quale Claudio era solo al momento dell’incidente, ed è morto.

Vorrei innanzitutto elogiare questi operai che hanno fatto una cosa mai vista prima nello stabilimento Ilva di Taranto: uno sciopero autorganizzato che è durato ben due settimane.
Per due settimane abbiamo resistito e siamo rimasti in presidio permanente in una tenda fuori della portineria.
È stata anche dura ma abbiamo resistito. Non sono mancate le discussioni, anche del nervosismo e battibecchi tra noi, ma credo sia normale e comunque lo sciopero è durato.
Per fermarlo i sindacati confederali ci hanno invitati a rientrare in stabilimento per discutere con loro di questo accordo, abbiamo rifiutato e anzi abbiamo preteso che fossero i sindacati confederali a uscire dalla fabbrica per venire a parlare con noi.
Solo dopo diversi giorni si sono presentati al presidio due loro iscritti, abbiamo discusso e sono andati via dicendo che avrebbero riferito ai loro dirigenti. Sono tornati subito dopo per dirci che all’indomani rappresentanti ufficiali di tutte le tre confederazioni sarebbero venuti al presidio per parlare con noi, per venire a capo di questo sciopero, parlare e trovare una via di uscita. Ma né il giorno dopo nè nei successivi si è presentato più nessuno. Insomma non c’è neanche un minimo di serietà, di rispetto per Claudio e per gli operai del MOF che in questa lotta hanno perso due settimane di paga, si sono sacrificati a stare sempre lì sotto una tenda alle portinerie, hanno fatto volantinaggi, raccolto firme, richiesto l’anticipazione delle elezioni RSU.
Nessun rispetto per nessuno e per niente di tutto questo, né per chi è morto, né per chi lotta e sciopera.

Se io ho scioperato e sono qua è perché non accetto tutto questo, la linea dei sindacati confederali!

Un ultima cosa: tengo a riferire quanto mi ha detto sull’incidente di Francesco un suo parente con cui ho avuto modo di parlare. Mi ha detto che in quello sporgente del porto ci sono tre gru. Di queste quella centrale è nuova, installata pochi anni fa. Le altre due laterali, su una della quali è morto Francesco, erano molto più vecchie e usurate, tanto che quelle due cabine hanno ceduto e solo una delle due era occupata. Questo fa capire che al di là del dell’imprevedibilità del maltempo, le responsabilità che ci sono. Ancora, sulle gru è installato un sensore che misura la velocità del vento e che si attiva se il vento supera i 50 km orari di velocità. Un sensore che serve a salvaguardare le gru, ma non per mettere in sicurezza la vita degli operai che ci lavorano.


Nella sala dell'assemblea nazionale è stato appeso il grande striscione che è stato sempre presente nella lotta degli operai del MOF:

CIAO CLAUDIO

sullo striscione vi erano le foto di Claudio Marsella e di Francesco Zaccaria con una dedica.




Prima dellintervento di Lorenzo, un forte applauso ha ricordato e salutato Claudio e Francesco, con tutto il cuore, con tutta la rabbia e la determinazione a continuare la nostra battaglia per la sicurezza sul lavoro, per i due nostri fratelli di classe assassinati.
Anche per loro e per tutti gli altri che sono stati uccisi dobbiamo avere ancora più forza per andare avanti.


Lo sciopero degli operai del MOF è stata una pagina nuova non solo per questa fabbrica.
15 giorni di sciopero ad oltranza non si sono mai visti in un siderurgico, per di più nonostante tutta una campagna contro chi scioperava orchestrata da sindacati e azienda.
Ma alla stesso modo vanno elogiati operai come Lorenzo e tanti altri giovani operai che, pur non essendo del MOF, hanno fanno anch’essi 15 giorni di sciopero, spesso scioperando da soli nei loro reparti, perfino rischiando di più degli stessi operai MOF. Questo dimostra che all’Ilva tante cose sono brutte, ma qualcosa sta cambiando e qualcosa di davvero bello sta nascendo tra le file degli operai, a cui affidiamo tutte le nostre speranze che questa lotta si possa vincere.


USI e USICONS ROMA 
GIUSEPPE MARTELLI

Credo che oggi sia una giornata importante, anche se in parte rattristata dai racconti duri che abbiamo ascoltato dagli operai dell’Ilva e di altre situazioni. L’ultima poesia che è stata letta aveva un significato importante: siamo dalla parte giusta, ma sappiamo anche questa battaglia che abbiamo intrapreso da anni, con le nostre poche forze, coi sindacati di base ed altre associazioni, io ne rappresento qui una, l’USI, ci è servita per fare a Roma campagne di denuncia per le tante morti sul lavoro oltre che per tentare di porci come parte civile, cosa che non sempre ci è riuscita, anche siamo riusciti a far chiudere e ristrutturare alcune scuole in cui c’era amianto, il canile con lo stesso problema … E alcune battaglie, nonostante tutto, siamo riusciti a vincerle.
Oggi abbiamo avuto un importante e utile momento di confronto tra compagni, con i lavoratori di Taranto e abbiamo lanciato un segnale importante. Speriamo che questo materiale esca da qui, sia diffuso, perché oggi le campagne di controinformazione hanno un’importanza fondamentale per lottare contro le scelte che questi governi stano facendo.
Pochi mesi fa è passato il decreto sulle “semplificazioni” - su cui abbiamo prodotto ed è disponibile un opuscolo - che rende di fatto inefficaci in tante piccole fabbriche, tutte le normative che avevamo ottenuto col TU 81 sulla sicurezza. Alcuni interventi ricordavano quante volte siamo stati a Roma tutti insieme facendo pressione verso le varie forze politiche, senza ottenere ragione. Per chiedere leggi, decreti che invece che “semplificare” aumentino responsabilità e punibilità in capo ai padroni.
Voi qui avete Riva, altrove ci sono altri padroni, e i padroni hanno tutti un solo interesse, il profitto. Per loro la morte dei lavoratori non ha alcun senso. Quello della Thyssenkrupp sarà, forse, il primo caso in cui qualcuno di loro sta iniziando a pagare.
A Roma la battaglia per difendere i macchinisti che avevano denunciato le ferrovie ed erano stati licenziati ha avuto successo. Continua la battaglia per la sicurezza nelle scuole, un altro dei settori dove di sicuro non c’è nulla. Tutte queste battaglie sono legate e rilanciano oggi la necessità della diffusione della Rete.
Occorre anche un rafforzamento organizzativo della Rete, serve per far pesare di più questa nostra forza, che è ancora piccola ma deve trovare una certezza. Prima di guardare al resto dobbiamo far sì che le class actions, le battaglie che possiamo lanciare per la salute sui posti di lavoro, contro le morti da sfruttamento del capitale perché per quelle morti qualcuno paghi, trovino in noi un referente sempre più affidabile.

Due sono le cose su cui ci dobbiamo impegnare. Primo, Purtroppo anche da qui oggi è venuta fuori la difficoltà della classe operaia a prendere coscienza. È importante far sentire a questi lavoratori che invece qualcuno sta prendendo coscienza. Secondo, non ci possono essere oggi battaglie separate, tutte le nostre battaglie sono unite. Qualcuno diceva “agire localmente ma pensare globalmente”, questo è quello che stiamo facendo e che continueremo a fare come Rete.
Importante oggi affermare il diritto alla salute e il diritto al lavoro come diritto entrambi inalienabili per tutti i cittadini, per tutti in questo paese, dove esiste ancora una Costituzione nata dalla Resistenza che stanno smantellando per difendere oggi interessi dei padroni, dei banchieri, per nascondere gli intrecci Stato-mafia, come ieri hanno usato le stragi e coperto gli stragisti, ricordiamo che tra pochi giorni è il 12 dicembre. Uno governo di padroni e banchieri come quello di Monti non può non difendere e proteggere Riva.
Questa è una battaglia che sarà lunga, che certo non è alla portata delle nostre piccole forze attuali, ma in cui queste forze dobbiamo farle pesare, far prendere nuova coscienza alla nuova classe operaia, per ribaltare la situazione.




SLAI COBAS per il sindacato di classe - Taranto
Margherita CALDERAZZI  

La situazione all’Ilva è chiaramente in questa fase determinata dal decreto del Governo Monti-Clini salva-Riva, che è un aperto diktat verso i lavoratori e le masse popolari di Taranto a difesa di padron Riva, è un via libera a produrre come ha fatto finora.
E’ un decreto, quindi, fatto all’unico scopo di difendere il profitto, e non la messa a norma della fabbrica, anzi è CONTRO una messa a norma che metta in discussione la libertà di produrre. Infatti, dopo aver fatto anche una presentazione dell’Aia falsata (visto che essa è sia nel merito e soprattutto nei tempi totalmente insufficiente rispetto alle necessità di messa a norma), arriva alla vera ragione del decreto “la continuità del funzionamento produttivo dell’Ilva” che “costituisce una priorità di interesse nazionale”.
L’AIA viene resa legge. E’ la prima volta che questo avviene. Il suo essere legge impedisce non solo l’intervento della magistratura ma anche modifiche migliorative frutto della lotta e dell’iniziativa dei lavoratori. Tant’è che l’art. 1 punta proprio a blindare l’Aia, affermando che “le misure volte ad assicurare la prosecuzione dell’attività produttiva… in quanto in grado di assicurare la più adeguata tutela dell’ambiente e della salute secondo le migliori tecnologie disponibili, sono esclusivamente e ad ogni effetto quelle contenute nell’Aia”.
Affermato questo, il decreto mette in secondo piano la stessa Aia, e scrivere che la prosecuzione dell’attività può essere fatta subito, “salvo che sia riscontrata l’inosservanza delle prescrizioni dell’Aia”, è un bluff, dato che il 2° comma stabilisce che già prima che si avviino gli interventi previsti, dalla entrata in vigore del decreto l’Ilva “è immessa nel possesso dei beni dell’impresa ed è in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al c. 1, alla prosecuzione dell’attività produttiva e della conseguente commercializzazione dei prodotti per tutto il periodo di validità dell’Aia”, vale a dire 3 anni.
E questo - scrive il decreto - deve essere consentito “in ogni caso” al di là dei “provvedimenti di sequestro e gli altri provvedimenti cautelari dell’autorità giudiziaria”; così il sequestro può formalmente restare ma perde ogni efficacia preventiva e deterrente.
D’altra parte come si concilia il via libera all’attività produttiva sempre e comunque, e nella piena gestione dei vertici aziendali con una seria messa a norma che necessariamente prevede il fermo temporaneo degli impianti da mettere in sicurezza e una riduzione della quantità di produzione di acciaio?

Che tutto questo sia posto spudoratamente a riaffermazione che l’unico diritto che va tutelato è quello della proprietà dei padroni, all’art. 2 il decreto afferma pertanto che, non solo l’Ilva può produrre liberamente ma “rimane in capo ai titolari dell’Aia (cioè ai Riva incriminati) la gestione e la responsabilità della conduzione degli impianti dello stabilimento”.Il decreto diventa così una sorta di condono ai Riva. Il governo invece di perseguire Riva lo premia; è come se ad un ladro che deve restituire ciò che ha rubato, gli si consenta di continuare a rubare per fare i soldi necessari alla restituzione del malloppo.
La nomina di un Garante che deve solo segnalare al presidente del consiglio e ai ministri competenti “eventuali criticità” e al massimo fare proposte, ma non ha alcun potere interdittivo o di prescrizione – tra l’altro una persona che verrà ben pagata, 200mila euro lordi l’anno – non solo non costituisce una “garanzia” ma è anch’esso un provvedimento anomalo: perché incaricare una persona, quando esistono gli Enti di controllo e di intervento preposti: Asl, Ispettorato del Lavoro? Forse perchè questi potrebbero non essere sempre così ligi ai diktat dello Stato?
Il decreto, e tantomeno l’Aia, nulla dice sui livelli di produzione record dello stabilimento Ilva di Taranto, nonostante che il grado di ipersfruttamento degli impianti, la maggiorparte già vecchi, che hanno portato al record di 10milioni medi di t/a di produzione, con conseguente supersfruttamento degli operai che hanno dovuto lavorare con ritmi intensi, in condizioni di insicurezza e di rischio per la salute, ha un nesso dimostrato con i livelli di inquinamento.

Infine, secondo Clini, Passera e Monti, dovrebbe dare garanzia dellìattuazione dell’Aia, la “minaccia” contenuta nel decreto di un’eventuale adozione di provvedimenti di amministrazione straordinaria. Ma Passera poi spiega che “le norme di amministrazione controllata potrebbero togliere enorme valore alla proprietà, il suo bene si depaupera e si arriva fino al punto di perderne il controllo”. Certo Riva potrebbe perdere la proprietà dell’Ilva ma lo stabilimento che lascerebbe sarebbe “depauperato” e quindi con un valore quasi nullo. Chi se lo prenderebbe a questo punto?

Questo decreto, quindi, è contro una messa a norma della fabbrica che metta in discussione la libertà di produrre, è contro la bonifica ambientale, perchè aver dichiarato lo stabilimento di Taranto di rilievo strategico nazionale, vuol dire che ogni intervento se in contrasto con gli interessi strategici nazionali, non va fatto e andrà bloccato.
Questo decreto crea un precedente pericoloso anche per altre fabbriche.

La premessa di questo decreto è la salvaguardia dell’economia dei padroni e, attenzione, la questione dell’ordine pubblico, di impedire, cioè, con l’intervento dittatoriale del governo che si sviluppi una lotta in fabbrica e sul territorioche metta in discussione effettivamente gli interessi nazionali e internazionali di padron Riva e dello Stato dei padroni.
Ciò che il decreto infatti stabilisce è un lavoro forzato, in una fabbrica resa franca da norme e diritti, ci mancherà che tra poco entri in Ilva l’esercito per imporre la produzione ad ogni costo.
In nome di questa “libertà” verranno impediti sia interventi della magistratura, ma anche lotte, scioperi, proteste degli operai. Gli operai sono fantasmi se lavorano e non pretendono; sono un “problema di ordine pubblico”, se protestano e rivendicano diritti. Questa situazione inevitabilmente non farà che peggiorare il clima di insicurezza tra gli operai, che in uno stabilimento come l’Ilva, si traduce immediatamente in rischio per la propria salute e vita.

Ma nello stesso tempo governo, Stato e padroni, con questo decreto si sono creati un grosso problema.
Perchè, se ogni minima rivendicazione di diritti viene vista come un rischio, un problema di ordine pubblico, allora ogni rivendicazione di diritti, sia per la salute, per il lavoro, per l’ambiente DEVE essere un problema di ordine pubblico! Questo devono comprendere gli operai, e anche le masse popolari di Taranto. Questo potrà far cadere sui piedi di governo, padron Riva, Stato la pietra che hanno sollevato.
A Taranto si gioca un pezzo di storia importante del nostro paese, nello scontro tra capitale e lavoro, tra difesa degli interessi dei padroni e difesa degli interessi dei operai e delle masse.

Altro effetto del decretoè che esso riconsegna di fatto la fabbrica nelle mani dei sindacati confederali.
La Fim (che ha detto: “il decreto è una giusta soluzione... L’azienda è un grande gruppo che ha le giuste garanzie…”), e la Uilm (che ha detto: “credo che occorra dare tempo a questa o a un’altra azienda per ottemperare alle prescrizioni…”) si sono subito schierati a sostegno del decreto. Il segretario della Fiom, invece ha fatto lo spirito ad un funerale: “L’Ilva non avrà più scusanti, i lavori per il risanamento ambientale potranno essere finalmente realizzati e nel più breve tempo possibile...”.
La preoccupazione della Uilm e della Fim in questa fase sono le perdite che il sequestro dei prodotti sta provocando all’azienda, e subito hanno dato prova del loro impegno firmando una cassintegrazione che ha una giustificazione solo come ulteriore ricatto/pressione verso il governo da parte di Riva per avere di più. La Fiom fa “forti” dichiarazioni, ma mai che chiami a mezza mobilitazione contro i piani di Riva.

Noi dello slai cobas per il sindacato di classe siamo, possiamo dire, il sindacato “contro i sindacati”! Lo slai cobas è l’opposizione storica in fabbrica, ha offerto il terreno per l’alternativa, nessun operaio può non ammettere che se avessero avuto il coraggio di costruire già negli anni scorsi un grande cobas dentro la fabbrica, non saremmo arrivati a questa situazione. Questa alternativa, benchè più di 1000 operai hanno firmato per l’entrata dello slai cobas e l’anticipo delle Rsu, ancora non si è consolidata e gli operai sono arrivati allo scontro attuale in condizioni di debolezza, confusi.
Un’altra cosa deve essere chiara. Il No operaio alla chiusura dell’Ilva e il ricatto produttivo di Riva e del Governo Monti sono due cose opposte, e servono interessi opposti. Sono gli operai dell’Ilva che negli anni passati hanno lottato, quasi sempre da soli, per la difesa della salute, della sicurezza, dell’ambiente, che oggi, se lottano, possono essere la “garanzia” anche per gli abitanti di Taranto.
Gli operai il 27 novembre quando hanno occupato lo stabilimento e invaso la direzione aziendale, con i dirigenti di Fim, Fiom e Uilm che stavano dentro e non con gli operai;  gli operai del Mof con il lungo sciopero e presidio, isolati e contrastati dai sindacati confederali, gli operai degli altri reparti che hanno scioperato al fianco dei loro compagni rischiando il posto di lavoro, hanno nei fatti posto una parola decisiva a questa situazione, sia pur ancora tutta da consolidare.
In queste lotte, nelle forme di autorganizzazione manifestatesi, sono emersi percorsi diversi e anche settori differenti di operai che vanno uniti: operai in dissenso con i propri sindacati, operai che via via prendono coscienza, ex attivisti sindacali, operai ribelli.
Il percorso può essere differente ma i lavoratori devono essere uniti in un solo sindacato di classe.
Il MOF ha indicato la strada per la messa in sicurezza, ma è il rifiuto del lavoro a rischio che bisogna praticare, utilizzando anche la legge, ma non delegando alla magistratura o agli Enti. Ogni aspetto, oggi più che mai è interno ad una guerra dichiarata da padron Riva e governo.
Il 27 per questo è stato importante. Ma dopo? Poi non si può gridare, come è stato fatto il 27: “I padroni della fabbrica siamo noi” e poi sprecare l’occupazione della direzione, l’imposizione al direttore Buffo di venire a parlare dal camion degli operai ‘liberi e pensanti’ per richiedere... le visite mediche e obiettivi minimalisti.

Lo Slai cobas lavora per l’unità di questi percorsi e di questi settori di operai nella battaglia per il sindacato di  classe nelle mani degli operai. Ma in questo si trova da solo e si deve scontrarsi con personalismo di alcune avanguardie, con discorsi qualunquisti degli operai del Comitato LP contro l’organizzazione sindacale tout court: “tutti i sindacati sono uguali, nessun sindacato”; con ragionamenti dell’Usb che guarda solo alla propria struttura e questa va avanti se ha i soldi.
Questo oggi è il problema, il nodo principale all’Ilva per rispondere adeguatamente alla situazione.

pc 24 gennaio - Ilva taranto - tutti uniti contro lavoro e salute all'Ilva di Taranto

il tavolo che si è riunito ieri a taranto
ha deciso solo una cosa
avanti così nel sostegno a padron Riva
e come conseguenza di questo
cassaintegrazione per 8 mila operai e
niente nuovi fondi per risanare la città a partire dal quartiere Tamburi
hanno avuto ragione gli operai circa 300 , cassintegrati innanzitutto, operai della USB in sciopero,  slai cobas per il sindacato di classe che ha cercato a un certo punto di far pesare la forza degli operai ai cancelli con fronteggiamento con polizia, guardia di finanza, carabinieri in assetto antisommossa, operai liberi e pensanti presenti nel contestare la visita di clini e ferrante con tanti giornalisti e sindacalisti confederali al seguito
i cassintegrati devono rientrare non aumentare
la fabbrica deve rimanere aperta con gli operai dentro per essere messa realmente a norma in forme accellerate
gli stipendi devono essere pagati
i fondi e beni di padron riva requisiti
i fondi dello stato per la bonifica della città a partire dal quartiere tamburi devono essere fortemente aumentati e operai e cittadini risarciti

serve lo sciopero generale che paralizzi fabbrica e città !

mercoledì 23 gennaio 2013

pc 23 gennaio - Ilva taranto - contestazione al ministro Clini - come è realmente andata - domani articolo più ampio

In una fabbrica massicciamente militarizzata all'interno e all'esterno è arrivato il ministro Clini.
Sin dalle 7 di questa mattina prima alla direzione poi alla port. A, oltre 200 operai hanno presidiato le portinerie - mentre i sindacati confederali non facevano nulla e sedevano nella platea di Clini. Nessun delegato confederale era presente al presidio.
Sono operai cassintegrati, innanzitutto, che chiedono a gran voce di rientrare e operai slai cobas, USB che prosegue il suo sciopero, operai 'liberi e pensanti'.
Un presidio di protesta e denuncia della visita di Clini al servizio di Padron Riva.
Verso le 11.30 al megafono la coordinatrice dello slai cobas per il sindacato di classe e alcuni operai hanno detto basta al solo presidio e hanno chiesto a gran voce che una delegazione operaia venisse incontrata in fabbrica dal ministro e da Ferrante. Per dar forza alla loro richiesta si sono mossi in tanti insieme verso l'entrata della portineria sbarrata, con finanzieri e poliziotti in assetto antisommossa.
Le forze dell'ordine hanno promesso di richiedere questo incontro, ma intanto hanno aumentato poliziotti e assetto militare sia all'esterno che all'interno della fabbrica, rispondendo così alla legittima richiesta dei lavoratori - è stato il momento più significativo e vivace della giornata.
Non è stato possibile andare alla forzatura del blocco poliziesco, anche se alta è stata la indignazione degli operai di vedersi fuori dalla loro fabbrica, mentre i poliziotti sono dentro l'Ilva.
Dopo circa un'ora di pressione perchè una delegazione entrasse in fabbrica, gli operai hanno via via lasciato il presidio.
Una parte dei cassintegrati si è data appuntamento a domani giovedì alle 9 alla port. A, perchè c'è un nuovo incontro azienda e sindacati su stipendi e gestione del personale.
Un gruppo di 'liberi e pensanti' ha raggiunto il piccolo presidio ambientalista in città a piazza
immacolata.
Il presidio e la contestazione operaia sono stati utili e necessari per rompere lo stato, silenzioso, di assedio e a far sentire anche tramite i mass media la loro voce. Ma certamente ci voleva ben altro, ci voleva quello che è richiesto a gran voce dallo slai cobas per il sindacato di classe e contenuto nel volantino annesso

slai cobas per il sindacato di classe ilva taranto
slaicobasta@lgmail.com 347-5301704
23-1-20013

Ferrante Ilva impone i suoi diktat, e governo, istituzioni, sindacali confederali vanno a ruota e non a difesa degli operai e masse popolari.

Si prepara un nuovo decreto o un 'Lodo' - che potremmo chiamare: "Vendola Palombella, Ferrante" - al solo scopo di permettere a Riva di recuperare il miliardo dalle merci sequestrate, legando a questo il pagamento degli stipendi. Come se Riva fosse un 'poveretto' che non può attingere da altri suoi fondi.

NULLA viene detto sul rientro immediato dei cassintegrati e l'azienda mantiene la pesante minaccia/ricatto di altra massiccia cassintegrazione - fino a 8mila (dice la stampa) e/o addirittura chiusura fabbriche del gruppo; quando il sequestro riguarda solo le merci passate e il decreto Aia già permette di produrne di nuove e di venderle.

Lo Slai cobas è da giorni per:
SCIOPERO GENERALE DI TUTTI GLI OPERAI DELL'ILVA, qualunque sia l'organizzazione sindacale di appartenenza, E MOBILITAZIONE UNITARIA DI OPERAI E MASSE POPOLARI, CON BLOCCO DELLA FABBRICA E DELLA CITTA' perchè siamo in una emergenza generale che tocca tutti, operai e cittadini.
Per imporre a padroni, governo e Stato:
* Il rientro dei cassintegrati e nessuna nuova cassintegrazione
* il pagamento garantito degli stipendi per tutta la durata della messa a norma
* l'accelerazione della messa a norma della fabbrica, oltre la stessa Aia insufficiente, innanzitutto coi soldi di padron Riva, requisendone fondi e beni, ma anche coi soldi dello Stato che ha gestito la fabbrica prima di Riva
* un piano reale per la bonifica della città, con molti altri soldi da mettere anche da parte dello Stato per salvaguardare la salute e risarcire le masse cittadine danneggiate a partire dai Tamburi.

Contro il fronte padronale/governativo che vede uniti tutti, istituzioni, sindacati confederali, partiti, gli operai hanno bisogno di costruire nella lotta il LORO FRONTE.

Prima di tutto unendosi al loro interno, impedendo qualsiasi divisione tra operai in cigs area a freddo e operai al lavoro area a caldo.
Costruendo insieme l'organizzazione alternativa di classe ai sindacati confederali, superando protagonismo di sigle e spontaneismi.
Gli operai hanno poi bisogno di non essere soli, operai e masse popolari di Taranto si devono unire - non contrapporsi come vogliono certi ambientalisti - per difendere lavoro e salute.

pc 23 gennaio - Turchia: arresti di massa contro avvocati e musicisti di sinistra


)
Maxiretata contro avvocati progressisti, giornalisti di sinistra, studenti e insegnanti, finora 94 gli arrestati. Tutti accusati di sostenere un’organizzazione dell’estrema sinistra. Compresi cinque musicisti del Grup Yorum, due delle quali già arrestate e torturate a settembre.


Incredibile serie di arresti, in Turchia, negli ultimi giorni. Nel silenzio complice dei media internazionali, gli stessi che ripetono a pappagallo la versione turca degli omicidi di Parigi come il frutto di una ‘faida interna al Pkk”.

Nell’ultima settimana sono state ben 94 le persone arrestate dalla polizia di Erdogan nelle principali città della Turchia, più della metà nella città più progressista del paese, Istanbul.
Nel mirino soprattutto attivisti per i diritti umani, sindacalisti, esponenti politici dell’opposizione marxista e addirittura i membri di una nota band, già pesantemente presa di mira in passato.

Gli ultimi ad essere arrestati sono stati nove avvocati, fra cui il presidente dell’associazione degli avvocati progressisti (Chd) Selcuk Kozagacli. Tutti accusati di far parte o di sostenere, con la propria attività, una organizzazione di estrema sinistra, il Dhkp/C, messa fuori legge dal governo islamista. L’Associazione degli Avvocati Progressisti è attiva soprattutto nella difesa degli attivisti curdi e di quelli delle organizzazioni turche di sinistra perseguitati dagli apparati di sicurezza del regime turco. Amnesty International ha denunciato in una nota che i poliziotti non solo hanno perquisito decine di abitazioni dei legali aderenti all'associazione, ma anche la sede del Chd e quella del Servizio Legale Popolare di Istanbul senza che vi fosse la presenza di un rappresentante nè della Procura nè tantomeno del collegio degli avvocati della città, come pure prescrive la legge.

Ma il grosso della retata era avvenuto venerdì scorso, quando la procura anti-terrorismo ha fatto arrestare 85 persone. I raid sono scattati contemporaneamente ad Istanbul, Ankara, Smirne ed altre quattro città. Anche in quel caso in manette erano finiti 15 avvocati aderenti ad associazioni progressiste e un gran numero di insegnanti e studenti universitari, alcuni di questi accusati di programmare un non meglio precisato “attacco alle istituzioni dello stato”.
Sono stati arrestati anche alcuni giornalisti del settimanale di sinistra Yuruvus e attivisti dell’associazione dei familiari dei prigionieri politici Tayad e di alcuni centri culturali. Il dettaglio delle accuse nei confronti delle persone detenute non è stato reso noto neanche ai loro avvocati difensori, dopo l'arresto, in quanto sull'operazione la magistratura ha apposto il "segreto".

Anche cinque componenti di una band musicale nota in tutto il mondo, il Grup Yorum, sono finiti in cella: Selma Atin, Dilan Balci, Ali Araci, Inan Altin e Caner Bozkurt.
Anch’essi accusati di sostenere il Fronte popolare rivoluzionario di liberazione (Dhkp/C), organizzazione marxista attiva dal 1978 e considerata di natura terroristica anche da Stati Uniti e Unione Europea, e che secondo Ankara sarebbe responsabile di un attentato contro un poliziotto turco nel settembre scorso. Non è un segreto che il Grup Yorum sia inviso alle autorità turche, che già si erano manifestate nel settembre scorso quando due musiciste furono arrestate, insieme ad altri 25 attivisti accusati anche in quel caso di sostenere il Dhkp/c, e torturate. Il Grup Yorum attraverso le sue canzoni e i suoi concerti da sempre denuncia la violazione dei diritti umani e la persecuzione delle organizzazioni e degli intellettuali progressisti da parte del regime turco. Negli ultimi mesi i suoi componenti aveva partecipato alla realizzazione di un documentario sulle inumane celle di isolamento – le cosiddette “F type” – dove vengono rinchiusi gli oppositori politici, ed aveva in programma vari concerti in Germania, oltre che un enorme concerto previsto a Istanbul per il 15 di aprile alla quale si prevedeva che dovessero partecipare almeno 500 mila persone. Un’occasione di denuncia delle malefatte del regime di Erdogan che i suoi servizi di sicurezza hanno voluto stroncare con gli arresti di tutta la band.

Immediata la reazione alla retata, in particolare da parte del partito curdo Bdp e dei colleghi dei legali arrestati. A Istanbul un gruppo di avvocati ha manifestato davanti al Palazzo di Giustizia brandendo cartelloni con la scritta "Liberate i nostri colleghi" ma ha dovuto fare i conti con la polizia che li ha sgomberati in malo modo. Una manifestazione di solidarietà con le vittime dell’operazione si è svolta anche a Smirne, mentre una condanna non scontata nei confronti degli arresti indiscriminati è venuta dal partito socialdemocratico Chp.


Leggi anche: 

pc 23 gennaio - Interventi all'assemblea della Rete nazionale per la sicurezza e salute nei luoghi di lavoro e nel territorio. Taranto, 7 dicembre



Continuiamo la pubblicazione degli interventi all'assemblea di Taranto promossa dalla Rete

LEO CORVACE 
LEGA AMBIENTE TARANTO

Sono della Lega Ambiente di Taranto, ma in passato sono stato anche operaio dell’indotto Ilva e rappresentante sindacale. Quindi diciamo che sono un ambientalista ma sono stato anche diversi anni in fabbrica e ho condiviso anche l’esperienza operaia.
In generale Taranto è un emblema dello sfruttamento capitalistico nel nostro paese. È stata terreno degli interventi per lo “sviluppo” del Meridione negli anni ’50, quella industrializzazione forzata del Meridione, che a distanza di 50 anni possiamo vedere che ha prodotto reddito ma non ha creato sviluppo, in quanto intorno a queste fabbriche non si è creato un indotto, queste fabbriche non sono state moltiplicatrici di altre esperienze industriali o artigianali, ma hanno prodotto soprattutto inquinamento e anche disoccupazione negli altri settori.
Possiamo definire questo tipo di sviluppo come interno a una divisione del lavoro preesistente agli anni ’50 e ’60 per cui le produzioni più nocive si collocavano nel Sud del mondo, e, nel nostro caso, nel Sud dell’Italia.
Questa industrializzazione ha comportato un pesante sfruttamento della forza lavoro, soprattutto negli anni ’60 e ’70, perché le lotte sindacali di allora se sono riuscite a ottenere alcune conquiste, non sono riuscite a spezzare la catena della micro parcellizzazione degli appalti, responsabile anche di tante morti in fabbrica. A metà anni ’70 si avevano qualcosa come 500 micro aziende attive nell’appalto e subappalto, che moltiplicavano anche i problemi di sicurezza.
Oggi Taranto, grazie soprattutto alla grande mobilitazione delle varie associazioni e comitati ambientalisti, è finalmente diventata questione di rilievo nazionale, un obiettivo che da tanto tempo ci eravamo prefissi. E la questione Taranto negli ultimi tempi ha contribuito a riproporre a livello nazionale la questione del rapporto tra industria e ambiente. Una questione negli ultimi anni completamente assente nel dibattito nazionale. Il valore nazionale della questione Taranto sta proprio nel risollevare con forza la questione di questo rapporto.
Per noi Lega Ambiente il problema non è mai stato anteporre la salute prima del lavoro o viceversa. Abbiamo sempre ritenuto importante la salvaguardia della salute della popolazione, cosi come la salvaguardia dei lavoratori, così come il lavoro delle persone. Abbiamo sempre ritenuto la questione ambientale strettamente legata alla questione sociale e che le due questioni dovevano essere affrontate parallelamente e intrecciate.
Abbiamo affermato che oggi, per effetto di quel tipo di industrializzazione, permangono un altro livello di disoccupazione, ufficialmente intorno al 22-23% e un altissimo tasso di inquinamento. Siamo perciò di fronte a un sistema che in nessun modo possiamo considerare sostenibile né dal punto di vista ambientale, né occupazionale. Lo stanno a dimostrare la dichiarazione risalente già al ’90 e reiterata nel ’98, di Taranto come area ad elevato rischio ambientale, le ordinanze di divieto di pascolo nel raggio di 20 km dalla cintura della città, l’interdizione della mitilicoltura nelle acque del Mar Piccolo, quella che era stata un’icona di eccellenza.
Taranto non è strategica solo perché tale l’ha definita un decreto del governo. Taranto, la sua produzione di acciaio è strategica anche per applicare un modello di sviluppo alternativo, basta pensare un sistema di mobilità alternativo centrato sul trasporto su rotaia invece che su gomma, che richiede massiccia produzione di acciaio. Taranto è strategica perché sede del porto militare più importante del Mediterraneo, dopo quello della Nato in Turchia. È il sito delle riserve strategiche di idrocarburi della nazione, ecc.
Eppure, a fronte di questa strategicità su tanti fronti, abbiamo avuto un territorio abbandonato a sé stesso, con un industria che oltre l’Ilva conta anche la raffineria, due centrali termoelettriche per un parco complessivo di 1.100 megawatt, più le due interne alla stessa Ilva e alla Raffineria; un grande cementificio più altri più piccoli, tre inceneritori, due discariche di rifiuti solidi urbani, tre di rifiuti speciali, usate principalmente per risolvere l’emergenza rifiuti in Campania, l’80% dei rifiuti speciali stoccati in provincia di Taranto viene da fuori regione e solo il 10% proviene dalla stessa provincia, oltre alle mega discariche che, ricordate, servono per i residui della lavorazione dell’Ilva.
Venendo alle ultime vicende, noi abbiamo sempre sostenuto le inchieste della Magistratura. Abbiamo sempre affermato che quegli impianti andavano fermati, come disposto dai provvedimenti della Magistratura, ma chiarendo bene che per noi si tratta di fermata, non di chiusura. Abbiamo sempre sostenuto che alla fermata deve seguire il risanamento degli impianti, non la chiusura.
È’ ben noto che tra le varie associazioni ambientaliste ci sono posizioni diverse, c’è chi è per la chiusura senza preoccuparsi della sorte degli operai, ma questa non è la nostra posizione.
L’ultimo provvedimento del governo ha ulteriormente complicato la situazione e la domanda a cui rispondere è se esiste un qualsiasi obiettivo che legittimi che un potere, cui la Costituzione attribuisce una sua autonomia, possa essere superato da un provvedimento di un altro potere, da cui è indipendente. Già in passato abbiamo avuto violazioni dello stesso tipo, penso all’esperienza di Gela o  ai provvedimenti del governo Berlusconi sulla riduzione dei tempi di prescrizione e di durata dei processi, con risultato di vanificare quelli che erano provvedimenti della Magistratura.
Sono segnali molto preoccupanti per la tenuta del nostro sistema democratico. Oggi pensiamo che, oltre che protestare per quanto avviene, occorre da subito agire per il risanamento degli impianti. Riteniamo abbastanza severo per l’Ilva il riesame dell’AIA appena approvato. Ci sono ancora dei punti che non ci vanno bene, soprattutto per quanto riguarda la tempistica, ci sono infatti tempi sensibilmente diversi di fermata e risanamenti, tra quelli contemplati dal riesame dell’AIA e quelli imposti dai provvedimenti della Magistratura. Altra cosa su cui non siamo d’accordo è il tetto della produzione fissato a 8 milioni di tonnellate, che lascia sostanzialmente il tetto attuale posto dall’Ilva, mentre riteniamo che questo debba essere decisamente ridotto, dato che in questo stabilimento meno si produce, meno si inquina, al di là delle innovazioni tecnologiche. Non ci sta bene neanche che nell’AIA non sia prevista una fidejussione, la sola che in qualche modo avrebbe potuto garantire i Tarantini dal fallimento dell’azienda, che porterebbe invece tutti i costi di bonifica a carico delle casse dello Stato e cioè a carico della collettività.
Detto questo, riteniamo che nel complesso l’AIA sia abbastanza severa, che non ha nulla a che vedere con quella spudorata rilasciata nell’agosto 2011 sotto il ministro Prestigiacomo, e che prevede tutta una serie di interventi piuttosto interessanti, che qui non abbiamo il tempo di elencare. Cito soltanto quelli a carico della cockeria, di tutte le parti dello stabilimento che comportano emissione diffusa o sono interessate a stoccaggio di materie prime.
In sintesi possiamo dire che l’AIA comunque prevede misure abbastanza restrittive, ma pur sempre interne al mantenimento di questo tipo di procedimento tecnologico, non si impone l’innovazione tecnologica, con tecnologie che oggi sono invece utilizzate in India, Cina o Sudamerica, le tecnologie corex e finex che bypassano completamente la cockeria. Abbiamo cercato di studiare l’impatto sul nostro territorio di questo tipo di tecnologie, ma non abbiamo risposte concrete sul piano tecnico. Dunque la nostra riserva resta: sono misure severe su un processo produttivo che resta lo stesso.
Per chiudere sul punto, il riesame dell’AIA dovrebbe essere completato da una valutazione del danno sanitario. Una valutazione prevista da una legge innovativa, anche se un pò farraginosa nell’applicazione, approvata di recente dalla Regione Puglia. È un fatto importante perché tutta la vicenda Ilva ci insegna una cosa: non basta rispettare i limiti di legge, all’Ilva nessuno contesta lo sforamento dei limiti alle emissioni. Ciò che la Magistratura ha appurato è che, pur nell’osservanza di questi limiti, le inchieste epidemiologiche dimostrano che gli effetti sulla salute dei lavoratori e dei cittadini sono assolutamente intollerabili.
Il problema quindi non è solo quello di ottenere il rispetto delle norme ma dei livelli di inquinamento che minimizzino l’impatto sulla salute dei cittadini.


Per Rete nodo SICILIA
ROSARIO SCIORTINO

Per quanto riguarda la Sicilia le statistiche ufficiali in questi giorni dicono ancora che in morti e gli incidenti sul lavoro sono diminuiti (-40%)”. E il “merito” di questa diminuzione viene attribuito al “Piano regionale straordinario per la tutela della salute e la sicurezza 2010-2012'”. Quanto siano efficaci questi piani regionali lo dimostrano i 44 morti, escluso quelli in itinere, fino ad oggi contati dall’osservatorio indipendente di Bologna.
E quanto queste affermazioni siano volgarmente tendenziose e di parte si capisce leggendo fino in fondo lo stesso comunicato ufficiale dove si scopre che “Rimane però il problema del lavoro nero. Infatti i dati su infortuni e morti sul lavoro sono condizionati da questo fenomeno, la cui incidenza - vista anche la crisi economica che imperversa - rimane costante nel tempo.  [sottolineatura nostra]”. Quindi l’attuale crisi economica viene citata, ma come di passaggio, mentre è proprio a causa della crisi e quindi della chiusura di tante fabbriche e tanti cantieri che ci sono meno morti e incidenti invalidanti, secondo le loro statistiche.
Come si sa la Sicilia è tra le regioni meno industrializzate del Paese, e quelle poche sono concentrate nella parte orientale con il polo petrolchimico Gela-Priolo-Augusta; poi c’è la raffineria Eni di Milazzo nella parte settentrionale, ma queste poche hanno fatto molti danni con inquinamento ambientale e alla salute delle persone come purtroppo è successo con la lunga storia dell’amianto. La Sicilia è nota anche però per le cosiddette bombe ecologiche rappresentate dalle discariche che inquinano il terreno e le falde acquifere come quella di Bellolampo sopra Palermo, e tante altre realtà piccole e piccolissime di cui difficilmente si viene a sapere.
Qui vogliamo prendere in considerazione in particolare due casi tra i più eclatanti: Gela e la Fincantieri.

Il caso Gela
Lo stabilimento di Gela,voluto alla fine degli anni ’50 da Enrico Mattei in persona, già una decina di anni fa fu messo sotto sequestro per inquinamento ambientale. L’indice era puntato in particolare contro il reparto clorosoda, dove si lavorava il mercurio senza precauzioni, con conseguenze devastanti sulla salute degli operai. Un dato su tutti inquieta: a Gela il numero delle malformazioni nei bambini è più alto di sei volte della media nazionale. Tra i bambini nati negli ultimi decenni è molto diffusa l’ipospadia, una malformazione congenita all’apparato genitale, ma comuni sono anche i casi di bambini nati microcefali. Alcuni bambini nascono senza un orecchio, altri con quattro dita alle mani, altri ancora con delle malformazioni al palato.
Solo nel 2002, ben 512 bimbi sono nati malformati.
La nuova inchiesta condotta dalla Procura tenta di trovare il nesso causale in specifiche condotte e pratiche dell’azienda.
Quasi una routine i casi di malformazioni genetiche tra le famiglie di operai ed ex dipendenti del petrolchimico dell’Eni. “Quando io e mio fratello gemello siamo nati senza alcun tipo di malformazione, in famiglia si è quasi gridato al miracolo per una cosa che in realtà dovrebbe essere normale” racconta Andrea Turco, ventenne figlio di un operaio dell’indotto petrolchimico”.
Le enormi ciminiere fumanti, dicono gli abitanti, quando il vento soffia verso occidente, ammorbano l’aria rendendola irrespirabile. I residui della lavorazione vengono scaricati nel fiume Gela e infatti: “Il problema è che a Gela è inquinato tutto: dall’acqua, agli ortaggi, al cibo con cui viene allevato il bestiame” aveva spiegato il genetista Bianca, perito della procura di Gela.
Nel 2006 a Priolo, pochi chilometri a nord di Gela, si era verificata una situazione simile. In quel caso, però, la Syndial, società dell’indotto Eni, aveva deciso di risarcire alcune famiglie danneggiate mentre le indagini erano ancora aperte: 101 casi di bambini nati con malformazioni genetiche erano costate più di undici milioni di euro, ma la vertenza era stata chiusa. Oggi il responsabile delle relazioni esterne dell’Eni in Sicilia, si esprime anche sul caso di Gela. “Se dovessero essere dimostrate responsabilità dell’Eni a Gela siamo pronti ad aiutare anche quelle vittime”.

Il dottor Bianca però lancia l’allarme: “Non è una condizione che si può restringere ad alcuni casi. Il problema principale è che qui a Gela in trent’anni non è cambiato nulla: pur avendo dismesso gran parte degli impianti del petrolchimico le percentuali di malformazioni sono rimaste stabili. Quindi il vero problema di questa città non sono le generazioni presenti ma quelle future”.
Già, e non solo bambini e operai: muoiono e si ammalano in generale gli adulti come evidenzia anche una ricerca del CNR che conferma che il comune di Gela è tra le aeree più inquinate del mondo. Nel sangue dei campioni esaminati ci sono veleni di ogni tipo. Dal piombo al mercurio.
Ora l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha scoperto che nelle vene degli abitanti scorre anche arsenico. Facendo una proporzione sul totale dei residenti, a rischio avvelenamento potrebbero trovarsi più di 20 mila persone. Che a Gela si muore d’ambiente sembra provarlo anche un’altro report firmato dall’Istituto superiore di sanità: tra i lavoratori del petrolchimico, i più a rischio sono quelli che, finito il turno, tornano a casa in città. I pendolari non residenti hanno tassi di mortalità per cancro polmonare molto più bassi.
La procura indaga, ma il compito dei pm non è facile. Oggi a Gela è attiva la grande raffineria dell’Eni, ma nell’area per decenni hanno fabbricato clorosoda, acido cloridico e altri prodotti chimici. Le bonifiche già partite sono poche, la stragrande maggioranza dei veleni resta a terra. E “Siamo ancora alle conferenze istruttorie”, chiosa Bianchi:
Anche a Gela come a Taranto è arrivato puntuale un decreto (n. 22/02) e come all’Ilva di Taranto il governo ha salvato di fatto l’azienda e i “posti di lavoro” (grande falsità: dai circa 10.000 di una volta adesso siamo a circa un migliaio e la metà in cassa integrazione), ma ha peggiorato, a detta degli esperti, la salute di tutti perché ha permesso di usare il pet-coke come combustibile; anche in questo decreto si parla di “migliori tecniche disponibili”, di salvaguardia dell’ambiente; dell’importanza strategica di tale prodotto per l’occupazione e l’economia nazionale.
I sindacati confederali hanno di fatto accettato con applausi questo decreto.
Anche a Gela ci sono dirigenti indagati e arrestati per inquinamento.

La Fincantieri di Palermo
Meglio conosciuta come Cantieri navali di Palermo, sono ricordati per il numero enorme di operai presenti negli anni 60 agli anni 80, circa 10.000, e per la combattività che mostravano negli scioperi. Molti di questi operai si sono ammalati e molti sono morti, non solo per le generali condizioni di lavoro senza alcuna sicurezza, ma soprattutto a causa dell’amianto che come raccontavano gli operai più vecchi era immagazzinato in sacchi che rimanevano buttati qui e là e gli operai stanchi di tanto in tanto ci dormivano pure sopra.
La pericolosità dell’amianto, killer invisibile che uccide anche dopo anni, era nota dai primi del ‘900. Ma già dal 1965, una legge impone l’adozione di misure a tutela dei lavoratori che stanno a contatto con le fibre. Invece, hanno raccontato i sopravvissuti durante il processo, alla Fincantieri di Palermo si lavorava senza mascherine e con aspiratori che non  funzionavano. Alla Fincantieri le polveri di amianto raccolte sul pavimento, che dovevano essere smaltite con apposite modalità,  venivano semplicemente spazzate, come fossero granelli di polvere. E mancava un servizio di lavaggio delle tute: gli operai se le  pulivano a casa. Come Angelo Norfo, morto di cancro pochi mesi prima della moglie che l’asbestosi l’ha presa  proprio lavando i vestiti del marito.
Negli anni sono stati fatti tanti processi, nella sostanza ci sono almeno sei filoni di indagini.
La gravità della situazione è data anche dal fatto che ad una udienza avrebbero dovuto deporre 7 operai: 5 però erano in condizioni talmente gravi da non poter esser sentiti. Due sono morti durante l’incidente probatorio. Il primo processo, vedeva gli imputati rispondere di 69 casi per omicidio colposo e lesioni gravi. Le parti offese, tra operai vivi e i prossimi congiunti, erano 128. Il secondo processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 39 casi, con circa 82 parti offese, il terzo processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 6 casi, con circa 30 parti offese, il quarto processo gli imputati sono chiamati a rispondere di 8 casi, con circa 17 parti offese. Il quinto processo sono10 i casi di cui devono rispondere, con circa 16 parti offese. Tutti processi ancora pendenti. Nel sesto filone, ancora nella fase preliminare gli indagati sono chiamati a rispondere di 22 casi tra decessi e lesioni gravi, con circa 53 parti offese. 145 sono gli operai tra lesi e deceduti, mentre le parti offese circa 326.
Ma restano fuori tutti quei lavoratori deceduti prima del 1998, e quelli che, purtroppo, lo saranno nei prossimi anni a causa della latenza della malattia. Va precisato inoltre che per i marittimi (coloro che stanno sulle navi) si parla di esposizione indiretta all’amianto.
Questi processi, grazie alla partecipazione di una gran numero di testimoni e consulenti, hanno permesso alla fine di accertare l’utilizzo indiscriminato di amianto all’interno del cantiere navale di Palermo, con la conseguente esposizione - diretta e indiretta - dei lavoratori alla sostanza.

L’altra novità che mette in relazione ancora una volta Palermo con Taranto è il filone Fincantieri che va a legarsi a quello della Tirrenia. Un collegamento che sono stati i familiari di vittime dell’amianto a fare. Raccontando le loro storie, lontane  eppure molto, troppo simili e in cui le parole ricorrenti sono lavoro, amianto, tumore, navi, Tirrenia, morte. È notizia di questi giorni che la Marina a Taranto era a conoscenza da tempo del pericolo amianto per i marinai.
E stiamo parlando della Fincantieri, azienda che opera nelle costruzioni e riparazioni di navi mercantili e militare e della Tirrenia navigazione Spa, è la più grande società marittima statale. Infatti entrambe sono controllate da Fintecna, l’una per il 99,3 per cento, l’altra per il 100%. E Fintecna è una società finanziaria italiana a sua volta interamente controllata dal Ministero dell’Economia e del tesoro.
La domanda, che si fa anche una giornalista è: ma lo Stato non avrebbe dovuto tutelare e salvaguardare i lavoratori? E i passeggeri che da anni viaggiano sulle navi della Tirrenia, in particolar modo gli autotrasportatori? E che fine ha fatto tutto l’amianto che dal 1992 per legge è stato vietato in Italia, con la legge 257?
L’attività giudiziaria ha quasi sempre, per così dire, fatto da supplenza all’azione sindacale che si è limitata, anche qui, a costituirsi parte civile una volta partiti i processi. Mai una campagna seria di lotta, mai una presa di posizione contro i medici competenti (o meglio quasi sempre compiacenti).
Noi abbiamo portato avanti  una campagna per la sicurezza sostenendo un operaio che era stato licenziato sostanzialmente come rappresaglia per le denunce sulla sicurezza sul lavoro, il processo d’appello è ancora in corso.


Infine, tra le tante, vogliamo parlare di altre due realtà

Mineo. Dove una decina di giorni fa sono state emesse  cinque condanne per l´incidente sul lavoro che 4 anni fa provocò la morte di 6 persone nel depuratore.
Secondo l’accusa, la morte dei sei operai sarebbe stata causata dall’esalazioni tossiche formatesi nel pozzetto di ricircolo dei fanghi durante le fasi della sua pulizia, che, secondo una perizia disposta dalla Procura, sarebbero state prodotte dal versamento illecito nella vasca di idrocarburi dall’autobotte della ditta Carfì che si trovava a operare sul posto.

La battaglia per la salute al Policlinico di Palermo. Dove la denuncia e la battaglia dello Slai Cobas per il sindacato di classe, contro le condizioni da quarto mondo in cui sono costretti a lavorare parecchi dipendenti del Policlinico, nonostante la persecuzione di cui è oggetto la rappresentante del cobas da parte della direzione sanitaria, che dopo averla minacciata di licenziametanto a seguito di una forte risposta l’ha mantenuta al lavoro ma trasferita, ha incoraggiato altre lavoratrici e lavoratori.
Soprattutto le donne hanno cominciato a rompere il silenzio sulle proprie precarie e rischiose condizioni di lavoro, ma anche sulle mansioni pesanti e faticose a cui sono adibiti, malgrado affetti da patologie fortemente incompatibili, che ne peggiorano lo stato di salute.

pc 23 gennaio - oggi il ministro clini a taranto

in una citta e in una fabbrica militarizzata

 

Ferrante Ilva impone i suoi diktat, e governo, istituzioni, sindacali confederali vanno a ruota e non a difesa degli operai e masse popolari.


Si prepara un nuovo decreto o un 'Lodo' – che potremmo chiamare: “Vendola Palombella, Ferrante” – al solo scopo di permettere a Riva di recuperare il miliardo dalle merci sequestrate, legando a questo il pagamento degli stipendi. Come se Riva fosse un 'poveretto' che non può attingere da altri suoi fondi.

NULLA viene detto sul rientro immediato dei cassintegrati e l'azienda mantiene la pesante minaccia/ricatto di altra massiccia cassintegrazione - fino a 8mila (dice la stampa) e/o addirittura chiusura fabbriche del gruppo; quando il sequestro riguarda solo le merci passate e il decreto Aia già permette di produrne di nuove e di venderle.

Lo Slai cobas è da giorni per:
SCIOPERO GENERALE DI TUTTI GLI OPERAI DELL'ILVA, qualunque sia l'organizzazione sindacale di appartenenza, E MOBILITAZIONE UNITARIA DI OPERAI E MASSE POPOLARI, CON BLOCCO DELLA FABBRICA E DELLA CITTA' perchè siamo in una emergenza generale che tocca tutti, operai e cittadini.
Per imporre a padroni, governo e Stato:
* Il rientro dei cassintegrati e nessuna nuova cassintegrazione

* il pagamento garantito degli stipendi per tutta la durata della messa a norma

* l'accelerazione della messa a norma della fabbrica, oltre la stessa Aia insufficiente, innanzitutto coi soldi di padron Riva, requisendone fondi e beni, ma anche coi soldi dello Stato che ha gestito la fabbrica prima di Riva
* un piano reale per la bonifica della città, con molti altri soldi da mettere anche da parte dello Stato per salvaguardare la salute e risarcire le masse cittadine danneggiate a partire dai Tamburi.

Contro il fronte padronale/governativo che vede uniti tutti, istituzioni, sindacati confederali, partiti, gli operai hanno bisogno di costruire nella lotta il LORO FRONTE.

Prima di tutto unendosi al loro interno, impedendo qualsiasi divisione tra operai in cigs area a freddo e operai al lavoro area a caldo.
Costruendo insieme l'organizzazione alternativa di classe ai sindacati confederali, superando protagonismo di sigle e spontaneismi.
Gli operai hanno poi bisogno di non essere soli,
operai e masse popolari di Taranto si devono unire – non contrapporsi come vogliono certi ambientalisti - per difendere lavoro e salute.

SLAI COBAS per il sindacato di classe ILVA – slaicobasta@gmail.com - 3475301704
via Rintone, 22 Taranto – T/F 0994792086 segui il blog tarantocontro.blogspot.it