sabato 5 ottobre 2013

pc 5 ottobre - La pantera nera, Herman Wallace, è morto questa mattina. Lo ha ucciso l'imperialismo USA che lo ha condannato a 42 anni in una cella di isolamento

Lo hanno condannato a marcire in isolamento per quarant’anni in una cella di 6 metri quadrati in un carcere della Luisiana per l’omicidio di una guardia carceraria nei primi anni settanta.
Secondo Amnesty International, «nessun altro prigioniero negli Stati Uniti è stato trattenuto così a lungo, e in condizioni così disumane e crudeli».

Herman Wallace e Albert Woodfox  furono condannati alla fine degli anni sessanta per due casi separati di rapina. Si incontrarono nel penitenziario statale della Luisiana, soprannominato ‘la prigione dell’Angola’. Il centro godeva di una cattiva reputazione: violenze, omicidi e stupri erano all’ordine del giorno, e coinvolgevano sia i detenuti che le guardie.

Herman Wallace and Albert Woodfox cercarono allora di creare una sezione locale delle Black Panter , un organizzazione radicale che lottava per i diritti degli afro-americani che era nata in quello stesso periodo. Chiedevano condizioni di vita migliori per i prigionieri, organizzarono scioperi della fame e fecero girare delle petizioni.

Nel mese di aprile del 1972, un guardiano bianco, che si chiamava Brent Miller, fu accoltellato a morte nella prigione. Herman Wallace e Albert Woodfox furono giudicati colpevoli di omicidio e condannati all’ergastolo. Poi vennero messi in celle di isolamento. Oggi hanno un età compresa tra i 64 e i 68 anni, e non sono mai stati tolti dall’isolamento, nonostante numerosi appelli.

Tre ore di uscita alla settimana in una gabbia.

Le loro condizioni di vita sono particolarmente difficili. Se il tempo lo permette, i due detenuti sono autorizzati a tre ore alla settimana di aria, un ora per volta, ma solo in una gabbia di fil di ferro di 1,80 m di altezza per 4,5 m di larghezza, secondo Amnesty International. Durante gli altri quattro giorni della settimana hanno la ‘libertà’ di farsi la doccia o camminare nel corridoio delle loro celle. L’accesso alla stampa o alla televisione sono limitati. Non sono mai stati autorizzati a lavorare o a studiare nelle loro celle. Il loro unico accesso al mondo esterno è rappresentato dalle visite di amici o familiari in parlatoio, e a un numero limitato di telefonate.

Seppure entrambi i prigionieri hanno lasciato il carcere di Angola rispettivamente nel 2009 e nel 2010 per un altro centro di detenzione, le loro condizioni carcerarie sono rimaste invariate. Secondo i loro avvocati, entrambi soffrono di problemi di salute legati alla mancanza di esercizio fisico e al confinamento: osteoporosi, claustrofobia, problemi cardiaci, ipertensione, ansia, insonnia.

Nel corso di questi quarant’anni, i due detenuti hanno cercato di dimostrare la loro innocenza. Secondo Amnesty International, il loro fascicolo è vuoto. Non ci sarebbe nessuna prova della loro colpevolezza, se non una dubbia testimonianza. La difesa ha dei documenti che provano che le autorità carcerarie di Angola avrebbero comprato la testimonianza del testimone chiave. Il test del DNA non è possibile: i campioni sono andati perduti.

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