lunedì 16 settembre 2013

pc 16 settembre - RISE-UP il fascino dei luoghi comuni, poche idee ma ben confuse - un commento volante di proletari comunisti

RiseUp 2.1. Appunti per un autunno di lotta, leggere su www.infoaut.org

NOTE  SU RISEUP 2.1

Il testo che vuole essere un promemoria analitico per l'autunno, diretto al movimento principalmente nelle università ma con un ottica all'universo giovanile è in perfetto stile degli autonomi: formule ora interessanti, ora speculative descrivono la realtà così com'è o almeno così come appare, per assolutizzare l'apparenza senza spesso coglierne la sostanza, assolutizzare le forme senza vederne il carattere comunque transitorio.
Con la concezione degli autori ciò che è dinamico diventa cristallizzato e statico, la fotografia del movimento diventa la tendenza del movimento; c'è l'eterno e l'evidente culto della spontaneità in cui “soggettività” consiste nel razionalizzare questa spontaneità. Un meccanismo utile a veicolare mode e forme di comunicazione orizzontali in generale efficaci ma che non spiegano il passato in cui questo metodo è stato continuamente utilizzato e che ha portato al deserto attuale della soggettività principalmente studentesca e che si vuole riproporre come coazione a ripetere e non come scarto, deviazione che fa tesoro delle lezioni.
Comunque, un documento non sottovalutabile, appunto nel deserto della soggettività in cui non esiste una vera controtendenza ma solo nuclei di differenza che non si fanno ancora teoria, almeno come 'pratica ragionata', lotta di posizione, altra interpretazione e, quindi, altra comunicazione.
Quando si usa il metodo descrittivo di RiseUp, tutti i gatti diventano bigi, tutti i movimenti vengono ridotti ad un denominatore comune che altro non è che la forma fenomenica di essi; spariscono classi sociali, strati, differenze tra lotte rivendicative e movimenti sociali diffusi, tra 'movimenti innesco' e permanenze di conflitto sociale.
Diventa indeterminata la forma paese, la forma Stato e la forma governo, che non viene scandagliata nelle differenze ma viene uniformata nell'apparenza, anche quando questa è sostanza di potere dominante e dittature agenti.
La fotografia poi nel nostro paese ci dà No Tav, Logistiche, case e sfratti e, molti più confusi, spazi sociali, esperienze di liberazione. Tutto ciò sarebbe il movimento esistente.
Siccome alla fine è un po' poco, RiseUp deve estendere e recuperare nella stessa dinamica “comportamenti incompatibili all'esistente, spesso individuali e a volte pre politici che sussistono... dentro il panorama della crisi”.
Ma fin qui, appunto, saremmo dentro la descrizione e, se fatta bene, di buona sociologia; il punto è che RiseUp è ambizioso, si pone il problema per così dire di “guida”, mai ammessa naturalmente, e la sua proposta è “rendere visibile e realistico per i più un'opzione alternativa e antagonista all'organizzazione del vivere esistente, alla sua espropriazione continua di relazioni e ricchezza sociale diventa necessità”. E' troppo per chi parla di “fase regressiva”, di “Italia grande assente”; è troppo poco per chiamare ciò “proposta pratica” che è pur sempre l'anello forte di forze realmente presenti e diffuse nel movimento.
Poi, però, c'è lo scarto università. Questa descrizione deve penetrare nell'università da cui di fatto proviene, ne coglie la difficoltà (impossibilità?), e allora ne fuoriesce subito.
Descrive l'esodo dall'Università imposto dall'università di classe, descrive che essa è ridotta a “luogo residualmente massificato”, ma sceglie di non contrastarlo.
Come sempre accompagna il processo del capitale e sceglie un altro terreno di scontro, da inventare chiaramente. E qui l'invenzione è facile. Il documento se la cava con “l'emersione di un soggetto giovanile nuovo che non si intercetta ma che ha dimostrato una potenza conflittuale importante”. Allude alle rivolte delle banlieues? Volesse il cielo! Ma non lo si dice. Ma d'altra parte di questo l'Italia sarebbe laboratorio abortito. Dato che lo si è descritto così, è naturale il seguito, “indagare dove si muove questo soggetto, quali sono i suoi bisogni e desideri”. Ma non era emerso?
La breve incursione nell'Università, un po' forzata, torna a librarsi nell'universo mondo. Turchia e Brasile sono quelle che hanno colpito più a fondo, e a ragione, l'immaginario.
Qui, però, la descrizione diventa banalità. Tutti abbiamo letto, abbiamo visto, tutti i giornalisti hanno scritto che sono battaglie nate con rivendicazioni circoscritte che poi diventano conflittuanti, ecc – Gezy park, l'aumento dei trasporti, le barricate, ecc.
Questo non viene analizzato nella realtà di ciò che è il Brasile, di ciò che è la Turchia, cioè la realtà non viene penetrata, eppure materiale ci sarebbe; ma agli autori non interessa realmente questo, agli autori interessa “battaglie nate da rivendicazioni circoscritte”.
Sarà difficile comprendere per tali soggettività, primo, che nel contesto del nostro paese questo metodo non è riproducibile; secondo, che questa riproducibilità è solo spontanea, coltivare questa riproducibilità – direbbe Lenin – è spontaneismo ed economismo.
Ma i nostri autori sono lanciati e si dice, riferito alla Tunisia: “la mobilitazione ha sperimentato nuove forme di lotta. Alle normali manifestazioni di piazza e agli scioperi ad oltranza si sono aggiunti l'assedio al Ministero degli Interni, il blocco dei servizi, ecc.”
Ma questo è la norma, la norma delle rivolte popolari, in particolare nei paesi oppressi dall'imperialismo o inseriti in contraddizioni laceranti di trasformazioni in economie da Bric, e masse ulteriormente impoverite.
La comunicatività tra queste esperienze e il movimento in Italia, siccome non può esserci, allora va in qualche maniera sublimata (la lettera a piazza Taksim del movimento No Tav, ecc.).
Ma, chiaramente, bisogna tornare dentro l'università.
Il documento denuncia le riforme Gelmini e Profumo e il percorso che porta ad una Università da un lato iperefficiente e dall'altro in parziale dismissione, in cui gli studenti sono in una sorta di gabbia a tappe obbligate che non riescono a contrastare.
Ma, invece, di fermarsi a studiare e ad individuare le forme di questo contrasto, si esce subito dall'Università per spostarsi alla messa in critica dell'organizzazione del quotidiano, tirando alle ordinanze contro la movida e alle altre aggressioni securitarie agli spazi esterni e interni.
E qui viene stabilito un pindarico collegamento con l'indisponibilità all'esproprio citando gli esempi degli alberi di piazza Taksim e dei trasporti. W questo sarebbe la difesa delle forme di vita della composizione metropolitana, peraltro addirittura scelte dalle masse, e non subite, dentro la tendenza al rifiuto e alla sottrazione che sarebbe la caratteristica di quella popolazione universitaria prima descritta.
Lungi da noi sottovalutare questi terreni di lotta, ma tradurli in forma soggettiva della nuova composizione giovanile metropolitana è davvero una forzatura; una forzatura obiettivamente disarmante nello scontro nell'Università.
Una volta scritto questo copione RiseUp non può che quindi esaltare l'occupazione e l'autogestione degli spazi urbani, acampadas, occupy, ecc. Invece di occupazione dell'Università, chiaramente, certo no.
Ma RiseUp non si chiede perchè le varie forme scimmiottate di 'occupy', ecc. in Italia non abbiano attecchito, se non in settori testimoniali, radicalizzanti tutt'altro che antagonisti – un esempio tra tutti, la sciagurata esperienza degli 'Indignados', componente ed habitat di quella tragedia opportunista rappresentata dal 15 ottobre .
Certo, nelle Università, però, qualcosa vi è stato, ma invece di essere analizzato nella sua resistenza e limiti, RiseUp deve sublimarlo nuovamente in una descrizione tutta sovrapposta che non corrisponde né alla realtà oggettiva di queste lotte e meno che mai alla soggettività studentesca che le ha organizzate e guidate.
Di fronte alla difficoltà di sovrapporre questo paradigma soggettivista alla realtà effettiva degli studenti che hanno lottato, gli autori devono inventarsi uno stile di militanza, questo sì fino in fondo esterno, che imponga queste lotte non nella dinamica conflittuale che effettivamente le anima ma in una sorta di involucro fatto di “socializzazione del quotidiano e riappropriazione di forme di vita”.
Torna qui la categoria dell'”irrappresentabilità” con la quale il rifiuto della rappresentanza istituzionale diviene la negazione della costruzione della rappresentanza autonoma e antagonista per lasciarla nel limbo equivoco di un minimo comune denominatore delle idee comuni diffuse.
Ma con questa descrizione è chiaro che ogni salto, che pur si ritiene necessario, viene affidato a una “capacità di operare forzature” che qui non è frutto del salto di qualità della rappresentanza e quindi della coscienza soggettiva avanzata, ma vere e proprie forzature a cui componenti cristallizzate dell'autonomia ci hanno abituati.
Ritornando al bilancio della fase che attraversa il movimento a sei anni dalla crisi, si registra la sconfitta del movimento 'No Gelmini', la mancata esplosione massificata e generalizzazione di rivendicazioni e pratiche; anche qui però è la spiegazione oggettivamente che prevale invece che l'analisi del ruolo che le avanguardie soggettive che hanno avuto le avanguardie reali.
L'analisi qui diventa un rifugio non un approfondimento della realtà. E la riduzione del carattere di massa delle università, la trasformazione di esse in un fabbrica di precari e disoccupati, la fine del valore del titolo di studio universitario, vengono poste a base dell'esodo dalle università e della coscienza soggettiva connessa a questo esodo che trasforma gli studenti in compartecipi di esso.
Questa descrizione rimuove il contrasto e l'antagonismo e l'esito finale di questo ciclo viene assunto come una sorta di dato di fatto, compreso del suo elemento soggettivo che così diventa quasi naturale e non, invece, soggettivizzato dalla classe dominante.
Di fronte a questa descrizione il documento sembra ritornare ad occuparsi del conflitto, a non volere abbandonare il campo, ma ripropone una via già perdente di autoformazione aggiornata che difficilmente può essere l'arma soggettiva della contrapposizione. Anzi, bisogna dire che in questo ritorno il documento aderisce fin troppo allo stato di cose esistenti, rivendicando migliori servizi, ritmi più lenti, migliore qualità della vita tra, quelle mura.
Diciamo, come programma minimo è troppo poco; per di più con l'ottica del conflitto metropolitano fin qui descritto, manca dello spessore della critica alla politica, dello Stato e dell'imperialismo, e ci propone un movimento rivendicativo sposato con una visione della socializzazione del quotidiano e dell'appropriazione di spazi di vita in cui struttura e sovrastruttura del capitale sono baypassati ed elusi e non combattuti, manca dello spessore del contropotere, della “base rossa”, “base d'appoggio” che può trasformare il meccanismo delle rivendicazioni in soggettività altra.
Infine, il documento ritorna a porsi il problema della comunicazione e la rottura con i media tradizionali, la necessità di creare falle e crepe nel muro di gomma del giornalismo a senso unico. Questo non viene affidato però al combattimento, alla pratica dello scontro soggettivamente inserito in un percorso organico, ma, come tutti in questa fase, all'utilizzo antagonista di internet, che essi vogliono mutuare dai buoni consigli di un testo, “Blitzkreig tweet” di Francesco de Collibus. Certo, probabilmente utili ma obiettivamente sopravvalutati se si ha lo scopo non solo di disturbare il manovratore ma di costruire quella massa critica reale, fatta in carne ed ossa, di movimenti di lotta.
16.9.13




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