C'è quello che si vede. E c'è quello che non si vede. C'è il fragore della guerra giudiziaria e del conflitto fra sindacati e impresa. La questione ambientale e industriale, insomma. E c'è il freddo distacco degli atti societari formali. La strategia di lungo periodo. L'intrecciarsi delle due dimensioni, nel caso dell'Ilva, offre un punto di vista inedito. Proviamo a sovrapporle. Di certo, tutto o quasi, ha inizio il 26 luglio dell'anno scorso.


Già da tempo le cose non andavano bene. La famiglia Riva, il cui business dipende per i due terzi dall'Ilva, aveva scelto come presidente un uomo delle istituzioni, del tutto digiuno di acciaio e di impresa, come l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante. Quel 26 luglio l'acciaieria di Taranto viene sequestrata e il fondatore del gruppo, l'ottantaseienne Emilio, finisce agli arresti domiciliari. Lo stesso provvedimento tocca al figlio Nicola e a sei dirigenti.
In Italia, a parte la parentesi di Tangentopoli, non era mai capitato che i vertici di un grande gruppo industriale venissero decapitati, con un colpo secco, dalla magistratura. Proprio quel giorno, il 26 luglio, nelle stanze ovattate di uno studio notarile lussemburghese, prende il via il progetto di fusione fra due delle società estere che stanno sopra il gruppo italiano: Parfinex Sa e Stahlbeteiligungen Holding Sa. Razionalizzazione prevista da tempo? La coincidenza della data è casuale? E chi lo sa.
Intanto a Taranto, nelle settimane successive, capita di tutto. Il 2 agosto la manifestazione per il lavoro indetta dai sindacati confederali finisce male, con la contestazione dei segretari generali di Cisl Bonanni, Cgil Camusso e Uil Angeletti. I custodi giudiziali diventano i veri capi operativi dell'acciaieria. Intanto, la famiglia Riva continua a riorganizzare le sue società. In Italia, ma soprattutto all'estero. Prendiamo quanto capita alla Stahlbeteiligungen Holding Sa.
Il 5 ottobre, in Lussemburgo, prende il via lo scorporo da quest'ultima del 25,38% dell'Ilva. Questo pacchetto viene conferito alla Siderlux, una società posseduta al 100% da Riva Fire. Dunque, si forma un asse intorno all'Ilva: Riva Fire ha il 61,62% e Siderlux ha il 25,38 per cento. Intanto, nella Stahlbeteiligungen Sa restano soprattutte le attività estere: cospicui pacchetti azionari delle acciaierie in Canada, in Belgio, in Spagna, in Germania e in Francia. Proprio a ottobre prende forma lo scontro a distanza fra la magistratura e il governo, che il 26 di quel mese rilascia l'Aia, l'Autorizzazione integrata ambientale, secondo la logica del provare a conciliare la produzione e il risanamento, ti lascio le chiavi dell'impresa ma tu i lavori li devi fare. Una logica opposta a quella della magistratura, che considera così grave la situazione da procedere a un graduale ma inesorabile "spossessamento" dell'acciaieria dalle mani della famiglia Riva e del management, Ferrante in testa. La famiglia Riva fa sapere di essere disponibile, in quella prima fase, a investire 400 milioni di euro: un decimo rispetto ai 4 miliardi stimati dai carabinieri del Noe. Tutti soldi da trovare dentro al perimetro dell'Ilva. Dunque, non è previsto che le casseforti lussemburghesi siano intaccate.

C'è quello che si vede. E c'è quello che non si vede. C'è il fragore della guerra giudiziaria e del conflitto fra sindacati e impresa. La questione ambientale e industriale, insomma. E c'è il freddo distacco degli atti societari formali. La strategia di lungo periodo. L'intrecciarsi delle due dimensioni, nel caso dell'Ilva, offre un punto di vista inedito. Proviamo a sovrapporle. Di certo, tutto o quasi, ha inizio il 26 luglio dell'anno scorso.
Già da tempo le cose non andavano bene. La famiglia Riva, il cui business dipende per i due terzi dall'Ilva, aveva scelto come presidente un uomo delle istituzioni, del tutto digiuno di acciaio e di impresa, come l'ex prefetto di Milano Bruno Ferrante. Quel 26 luglio l'acciaieria di Taranto viene sequestrata e il fondatore del gruppo, l'ottantaseienne Emilio, finisce agli arresti domiciliari. Lo stesso provvedimento tocca al figlio Nicola e a sei dirigenti.
In Italia, a parte la parentesi di Tangentopoli, non era mai capitato che i vertici di un grande gruppo industriale venissero decapitati, con un colpo secco, dalla magistratura. Proprio quel giorno, il 26 luglio, nelle stanze ovattate di uno studio notarile lussemburghese, prende il via il progetto di fusione fra due delle società estere che stanno sopra il gruppo italiano: Parfinex Sa e Stahlbeteiligungen Holding Sa. Razionalizzazione prevista da tempo? La coincidenza della data è casuale? E chi lo sa.
Intanto a Taranto, nelle settimane successive, capita di tutto. Il 2 agosto la manifestazione per il lavoro indetta dai sindacati confederali finisce male, con la contestazione dei segretari generali di Cisl Bonanni, Cgil Camusso e Uil Angeletti. I custodi giudiziali diventano i veri capi operativi dell'acciaieria. Intanto, la famiglia Riva continua a riorganizzare le sue società. In Italia, ma soprattutto all'estero. Prendiamo quanto capita alla Stahlbeteiligungen Holding Sa.
Il 5 ottobre, in Lussemburgo, prende il via lo scorporo da quest'ultima del 25,38% dell'Ilva. Questo pacchetto viene conferito alla Siderlux, una società posseduta al 100% da Riva Fire. Dunque, si forma un asse intorno all'Ilva: Riva Fire ha il 61,62% e Siderlux ha il 25,38 per cento. Intanto, nella Stahlbeteiligungen Sa restano soprattutte le attività estere: cospicui pacchetti azionari delle acciaierie in Canada, in Belgio, in Spagna, in Germania e in Francia. Proprio a ottobre prende forma lo scontro a distanza fra la magistratura e il governo, che il 26 di quel mese rilascia l'Aia, l'Autorizzazione integrata ambientale, secondo la logica del provare a conciliare la produzione e il risanamento, ti lascio le chiavi dell'impresa ma tu i lavori li devi fare. Una logica opposta a quella della magistratura, che considera così grave la situazione da procedere a un graduale ma inesorabile "spossessamento" dell'acciaieria dalle mani della famiglia Riva e del management, Ferrante in testa. La famiglia Riva fa sapere di essere disponibile, in quella prima fase, a investire 400 milioni di euro: un decimo rispetto ai 4 miliardi stimati dai carabinieri del Noe. Tutti soldi da trovare dentro al perimetro dell'Ilva. Dunque, non è previsto che le casseforti lussemburghesi siano intaccate. 
Intanto, con i commercialisti e i notai di fiducia, la famiglia Riva si muove. Operano non solo sulle società lussemburghesi, ma anche su quelle italiane. In particolare, l'assemblea di Riva Fire del 17 ottobre sancisce la cessione del ramo di azienda che produce e commercializza i prodotti lunghi a favore della controllata Riva Forni Elettrici, a cui peraltro passano anche riserve per 320,6 milioni di euro. A questo punto in Riva Fire, che controlla l'Ilva, resta il business dei laminati piani a freddo e a caldo. In Riva Forni Elettrici ci sono i prodotti lunghi. In Stahlbeteiligungen Sa soprattutto le attività estere. I magistrati, a questo punto, vanno come treni.
Il 26 novembre, per una inchiesta sui metodi con cui la famiglia lombarda cercava di influenzare la pubblica amministrazione e i pubblici ufficiali, vengono emessi mandati di custodia cautelare per Fabio Riva (latitante per oltre due mesi) e per il direttore dello stabilimento di Taranto, Luigi Capogrosso. Inoltre, sono sequestrati 1,7 milioni di tonnellate di merce già prodotta.
A Taranto, dunque, la situazione è drammatica. A Roma, si prova la soluzione "politica". E negli studi dei professionisti dell'Ilva si continua a lavorare. Se è datato 19 dicembre dell'anno scorso l'atto notarile della scissione del ramo d'azienda da Riva Fire a favore di Riva Forni Elettrici, cinque giorni dopo viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la Legge 231 (conversione del "decreto Salva Ilva") con cui il governo permette a tutti i siti industriali di interesse strategico di continuare a produrre anche con gli impianti posti sotto sequestro. L'11 gennaio di quest'anno il consiglio dei ministri nomina commissario per le bonifiche Alfio Pini e garante per l'Aia Vitaliano Esposito. Quattro giorni prima la riorganizzazione delle attività italiane era stata ultimata con il deposito dell'atto di scissione dei prodotti lunghi alla Riva Forni Elettrici in camera di commercio a Milano. Dunque, a questo punto, nelle architetture societarie esistono tre poli di attrazione. L'Ilva, che di fatto è separata da tutto il resto.
Le acciaierie straniere. I prodotti lunghi, un segmento che nell'organizzazione del gruppo Riva è alimentato dai forni elettrici (per esempio, gli stabilimenti di Caronno Pertusella, in provincia di Varese, e di Lesegno, in provincia di Cuneo), e non dal ciclo integrato di Taranto. Una serie di operazioni straordinarie che eliminano intrecci fra società e che soprattutto, sulla carta, rendono più facile disporre del gruppo o di parti di esso, di fatto isolando Ilva e provando a proteggere il resto del gruppo industriale e finanziario da ogni iniziativa giudiziaria.
Intanto, nel sempre difficile mondo reale, la famiglia Riva prima si dichiara disponibile ad aprire il capitale a partner stranieri (finora con scarso successo, anche se Arcelor Mittal si è fatta avanti) e poi "sceglie" - su input delle banche prossime finanziatrici dell'Aia (in particolare di Pier Francesco Saviotti del Banco Popolare) - il ristrutturatore Enrico Bondi, uno duro come il ferro, per la gestione dell'imprese. 
Le aule di tribunale, l'acciaieria e gli studi dei professionisti, italiani e lussemburghesi. Il futuro dell'Ilva si determinerà su tre campi da gioco che soltanto in apparenza non c'entrano niente l'uno con l'altro.

28 marzo 2013