sabato 7 aprile 2012

pc 7 aprile - RIFORMA MONTI/FORNERO: CHE NOIA LE DONNE DI 'SE NON ORA QUANDO'.

Se il governo Fornero/Monti dovesse ricevere dalle donne le innocue puntualizzazione delle esponenti del Comitato promotore di "Se non ora quando" sulla riforma del lavoro, potrebbe dormire sonni tranquilli.
Per fortuna non è così da parte di operaie, lavoratrici, precarie, disoccupate che anche in questi giorni stanno scendendo in lotta contro un governo che in materia di lavoro e di diritti sta attuando rapidamente una politica di smantellamento e di attacco che a questi livelli neanche Berlusconi aveva fatto. Ma si sa non sono queste donne il riferimento preferito dalle dirigenti di Snoq...
Per le esponenti di Snoq "il testo licenziato dal governo è significativo", solo che ha fatto poco e doveva fare di più per le donne... Solo chi - e sono parecchie nelle strutture nazionali di Snoq, anche se si spacciano per 'femministe' - ha gli occhi tappati dalla sua appartenenza al PD, alla parte più di destra della Cgil di Camusso, dalla sua classe borghese, dal suo vero interesse: quello di entrare nelle stanze che contano, può non vedere e denunciare come questa riforma del mercato del lavoro, se passa, sarà drammatica nei suoi effetti e per le donne lo sarà non solo in termini di lavoro, di reddito, ma di generale peggioramento in termini di vita, di condizione di discriminazione, di oppressione, di peso della famiglia. Altro
che questo governo non ha fatto niente, sta facendo tanto ma contro!
Tutti i contratti precari, che precarizzano ogni giorno l'esistenza, e che
riguardano soprattutto le donne, restano. Dove vedono le Snoq "l'rrigidirsi delle norme sulla flessibilità in entrata"? La riforma porterà sempre più all'impossibilità del contratto a Tempo Indeterminato, a maggior ragione per le donne che faticheranno come e più di prima a trovare anche uno straccio di lavoro precario, mentre non troveranno nessuno ostacolo ad essere cacciate dal lavoro.
L'attacco all'art.18 con il licenziamento per "motivi economici", come si pensa che verrà usato verso le donne? Con questo attacco i casi delle operaie dell'Omsa diventeranno decine e decine, visto che tra i motivi economici c'è la "chiusura dell'attività produttiva"; Così come tante operaie, soprattutto delle grandi fabbriche, a partire dalla Fiat, saranno le prime ad essere mandate a casa perchè, tra i motivi economici, vi è l'introduzione di macchinari per risparmiare lavoro; o saranno cacciate le operaie ammalate, invalidate sul lavoro, quelle con Ridotte Capacità Lavorative causato dallo sfruttamento sul lavoro e dal doppio lavoro in casa; quali "norme che scoraggiano le "dimissioni in bianco", potranno ostacolare licenziamenti che ora le aziende potranno fare "regolarmente" liberati dall'art.18?
La cancellazione di fatto del'art.18 permetterà anche alle grandi aziende di fare licenziamenti collettivi (che comunque devono rispettare una procedura e rispettare le norme antidiscriminatorie, sulla partità, ecc.), camuffandoli come licenziamenti individuali per motivi economici.
Le esponenti di Snoq nulla dicono su tutto questo. Sembrano quelle che, mentre tutto intorno crolla, chiedono che un piccolo scalino sia rafforzato. Si crucciano perchè "Monti... aveva fatto sperare in un vero rinnovamento del Paese attraverso l'ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro..." -
Ma quando mai!? Solo loro ci potevano sperare...
Che noia sono queste!

Occorre, invece, costruire una seria e dura lotta nazionale delle donne contro il governo Monti/Fornero. A partire dal collegare le realtà di lotta giè esistenti, dalle precarie della scuola di Milano alle precarie di Palermo, alle operaie della Fiat, alle disoccupate di Napoli e Taranto, ecc. ecc.


IL COMUNICATO del Comitato Promotore Nazionale Se non Ora Quando?

Riforma del Lavoro: nulla di significativo per le donne. Il testo licenziato dal Governo è significativo e può essere valutato in molti modi. Noi del movimento Se Non Ora Quando lo guardiamo dal punto di vista delle donne e vediamo che però ben poco di significativo è stato fatto per loro. La ministra del Lavoro potrà forse dire che l’irrigidirsi delle norme sulla flessibilità in entrata le favorisce e che sono state reintrodotte norme che scoraggiano le dimissioni in bianco. Noi sappiamo però che l’occupazione delle donne aumenterà soltanto se ci sarà una ripresa degli investimenti, e che questa ripresa deve includere investimenti privati e pubblici nel welfare. Avevamo chiesto che per questo venisse usato il risparmio ottenuto innalzando l’età pensionistica delle donne. Non ne vediamo traccia.
Le poche disposizioni previste per il lavoro femminile sono aggiunte ad un testo cui manca, nel suo complesso, la prospettiva trasversale di gender mainstreaming dettata dall’Unione Europea. Le stesse misure antidiscriminatorie, come la reintroduzione di norme che scoraggino le dimissioni in bianco o di sostegno – come i voucher –, si rivolgono in prevalenza a chi ha un lavoro dipendente, escludendo di fatto le giovani che lavorano a tempo determinato con contratti e collaborazioni precarie.
Per le dimissioni in bianco, in particolare non ci convince che l'eventuale
reato commesso sia derubricato a ILLECITO amministrativo e risolto con un
risarcimento. Le misure sulla maternità e i congedi parentali ci paiono invece del tutto insufficienti. Il segnalino alle donne, rappresentato dal congedo parentale
sperimentale per i padri, non può essere considerato una conquista consistente e ci appare come un provvedimento innocuo e quasi offensivo. Servono misure più forti per una vera politica di parità. Diciamo perciò al Presidente del Consiglio Monti che quando ha esordito nel presentare il suo governo al Senato aveva usato parole e accenti che avevano fatto sperare in un vero rinnovamento del Paese attraverso l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro e nella cittadinanza piena. Il governo avrebbe in tal caso fatto di se stesso l’artefice-protagonista di una vera, grande innovazione politica, questa sì in grado di allineare l’Italia all’
Europa. Così non è stato e l’occasione è andata perduta. Così non va, non va, professor Monti, l’Europa è ancora ben lontana.

Comitato Promotore Nazionale Se non Ora Quando?

pc 7 aprile - a difesa dell'art.18 scioperi in numerose fabbriche - ma non solo - le donne di palermo

pc 7 aprile - lotta degli studenti a Palermo

BASTA GIOCARE CON IL NOSTRO FUTURO! L’ISTRUZIONE è UN DIRITTO! LAGALLA DIMETTITI!


Stamattina abbiamo partecipato ed espresso solidarietà agli studenti del corso di Conservazione e Restauro dei Beni culturali in sit-in davanti il rettorato di Palermo che ancora aspettano l'attivazione del corso di laurea nonostante abbiano pagato le tasse. Una delegazione degli studenti è stata ricevuta dal rettore dopo che gli stessi, nonostante le stupide prescrizioni del questore, sono entrati nell'atrio esterno di Palazzo Steri.
Denunciato il ruolo intimidatorio della digos in seguito a quest'azione pacifica che ha minacciato ritorsioni legali. Da segnalare la presenza, di un esponente di Sel, "stranamente" questi signori sempre assenti riemergono in periodo di campagna elettorale. Seguiranno aggiornamenti.
Qui sotto il volantino distribuito:


Un diritto fondamentale che di fatto viene attaccato quotidianamente dai governi e dalle istituzioni che dovrebbero invece garantirne la fruizione.
Negli ultimi anni infatti abbiamo assistito ad un aumento e in certi casi raddoppio delle tasse universitarie a cui è corrisposta una diminuzione della qualità dei servizi offerti allo studente.
In molte facoltà spesso i corsi di laurea o le singole materie non partono in tempo facendo perdere agli studenti tempo prezioso per dare gli esami costringendo lo studente già vessato da rette alte a cercarsi un lavoro spesso precario per pagarsele, rischiando di andare fuori corso e quindi vedersi aumentate ancora una volta le tasse per questo motivo.


Il caso più emblematico dell’ateneo è proprio quello di Conservazione e Restauro dei Beni Culturali, corso che ancora non è iniziato nonostante gli studenti abbiano pagato regolarmente le tasse per l’anno accademico in corso. Per mesi agli studenti sono state date risposte vaghe, per prendere tempo da parte degli incompetenti responsabili, adesso ad aprile dopo ben 7 mesi di inattività non si intravede una soluzione.


Questa situazione è inaccettabile! Il presidente del corso di laurea, il preside della facoltà ed il rettore Lagalla devono dimettersi!


Mentre il “magnifico” rettore Lagalla fa le sue passerelle in convegni ed incontri istituzionali, come lo scorso 25 Febbraio quando ha accolto con tutti gli onori insieme ai presidi delle facoltà il Ministro Profumo, l’università di Palermo cade a pezzi!
Non si capisce cosa sia venuto a fare il ministro quando pochi giorni dopo sono stati annunciati 5,5 milioni di tagli per l’ersu che si tradurranno nella chiusura delle mense universitarie, tagli al 30% dei posti letto per gli studenti fuori sede e la riduzione del 50% delle borse di studio. Questa manovra è diretta conseguenza del taglio da parte del ministero di circa l’80% dei fondi destinati agli enti per il diritto allo studio come l’ersu. Ma come ha dichiarato pochi giorni fa il Ministro, “gli studenti che possono vadano a cercare un lavoro all’estero”, bella soluzione!


Siamo vicini agli studenti e alle studentesse di Conservazione e Restauro dei BB. CC. In questa prima protesta e denuncia pubblica del loro grave problema e pensiamo che non si possa rinunciare a 3 richieste fondamentali:


Per prima cosa gli studenti, essendo stati privati di un loro diritto (pagato regolarmente e profumatamente), devono esigere il rimborso totale delle tasse universitarie pagate per l’anno accademico in corso.


Secondariamente l’anno accademico 2011/2012 non può essere conteggiato per fare andare fuori corso questi studenti.


Terzo i corsi devono partire al più presto, anche immediatamente, fermo restando quanto detto sopra e attivazione del ciclo unico PER TUTTI GLI STUDENTI in conservazione e restauro dei beni culturali.
Solo con la propria forza e la lotta si possono ottenere questi risultati, noi studenti di altre facoltà e giovani lavoratori precari, portandovi la nostra solidarietà concreta, vi invitiamo a lottare insieme diffidando da istituzioni di qualsiasi tipo che fin’ora se ne sono totalmente infischiate del problema.
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pc 7 aprile - concerto per la palestina a napoli il 13 aprile

pc 7 aprile - legaNord e No Tav



Lega Nord: Predoni a casa vostra!

Ora è tutto più chiaro, più preciso per lo meno. Ci eravamo abituati a leggere e sentire slogan roboanti sui “popoli del nord”, sui “padroni a casa nostra”, sull’autodeterminazione dei popoli e finalmente possiamo finire questa farsa durata da troppo tempo.

L’ultimo partito, nel senso vero del termine, cioè una struttura con l’articolazione sul territorio, le sedi, i volantini e tutto il resto ha dimostrato quello che è. Certo lo avevamo capito quando dalla secessione si è passati al federalismo mai visto neanche con il binocolo nonostante ministri e ministeri; o quando da Roma Ladrona si è passati al trasferimento in massa a Roma; o quando a suon di promesse e euro il senatur ha sempre “retto il moccolo” al cavaliere anche quando era indifendibile; oppure quando abbiamo visto le truppe di Maroni scagliarsi contro i famosi popoli delle Alpi, come quello valsusino, per l’interesse di lobby e cricche di cui i padani fanno parte a pieno titolo; ci è sempre più chiaro di cosa parliamo vedendo Cota a capo della Regione Piemonte farsi tifoso del Tav (con quello che ormai oggi comporta) e tagliare ospedali e servizi sociali nel nome di una mai meglio dimostrata efficienza.

Ah ci ricordiamo il carroccio anche in quel momento, due mesi dopo l’elezioni, che al governo in Regione aveva già avuto due arresti tra assessori e sottosegretari (pdl) per corruzione nell’ambito della sanità pubblica.

Insomma, il partito del nord ha finito di presentarsi come soluzione al problema e svelarsi per quello che è: cioè causa del problema del nord, del sud e del centro.

Non c’interessa il folclore che c’è intorno alla Lega, e nemmeno il razzismo becero che l’ha sempre circondata (che abbiamo sempre avversato) perché abbiamo capito che era tutto polverone per coprire gli affari dei verde vestiti.

Nonostante, secondo la logica leghista, siamo residenti in Padania, in Val di Susa la Lega non ha da anni più potuto venire a fare propaganda perché qui, il territorio decide sul serio e il popolo ha gli anticorpi per non cascare nei traboccati degli slogan leghisti. La Lega, lo abbiamo dimostrato sulla vicenda del Tav, è parte della rete clientelare che si vorrebbe arricchire con la Torino Lione, essere padani qui significa usare il territorio per fare affari e quattrini, magari poi da investire in Tanzania…

Il senatur, l’uomo solo al comando, venerato da tutti, cade come tutti i suoi colleghi, immischiato nella gestione dei partiti e nell’accumulo di capitali che questi signori fanno con metodo, con la legge o al di fuori della legge, è sempre bene dirlo.

Anche senza la magistratura per noi era tutto chiaro, stiamo vedendo all’opera Cota, e ci ricordiamo del buon Maroni a capo delle “truppe romane” per distruggere quel famoso territorio che i padani hanno tanto a cuore.

Non ci mancherà e ne faremo a meno come abbiamo sempre fatto, la Val Susa si è sempre rappresentata nella lotta e specchiata nella sua dignità, difendendo territorio e popolo senza soddisfare le voglie personali di nessuno, nemmeno di una “trota”, ma sempre e solo il futuro di tutto… e tutti.

pc 7 aprile - giornata nazionale no tav 11 aprile


11 aprile no tav in ogni città! Scriveteci dove a 11aprilenotav@gmail.com !
SCRIVETE a 11aprilenotav@gmail.com
LA DATA L’ORA E IL LUOGO DELLE INIZIATIVE NO TAV CHE SI STANNO ORGANIZZANDO IN ITALIA. CREIAMO INSIEME UN GRANDE E CHIARO CALENDARIO NO TAV!

Come già abbiamo scritto nei vari appelli circolati in queste settimane l’11 aprile sarà una data importante per il movimento no tav. Per tutta la settimana in valle di Susa ci saranno iniziative, mobilitazioni e la possibilità per tutti di fermarsi al presidio di Venaus per riposare, confrontarsi e ripartire. Pensiamo che questa data sia importante anche e soprattutto per un percorso nazionale di allargamento di questo movimento, di queste istanze e di questa lotta. Come già è avvenuto nei mesi passati in ogni parte del paese comitati spontanei, realtà organizzate e singoli hanno dato luogo ad iniziative di sostegno alla valle di Susa. Questa è stata una cosa stupenda che ci ha dato forza e coraggio, per noi tutti, per Luca e per tutti i no tav che hanno subito le varie operazioni giudiziarie con arresti e provvedimenti di restrizione delle libertà. Pensiamo anche che questo sia solo un primo passo di un percorso più lungo e ampio che ci auguriamo riesca a diventare nelle pratiche e nella partecipazione sempre più partecipato e popolare. L’obiettivo per chi segue e sostiene il movimento no tav in tutta Italia è quello di diffonderne i contenuti, la bellezza, la forza. Per fare questo occorre che gli appuntamenti dati siano chiari e praticabili da tutti. Dobbiamo fare uno sforzo di informazione, di diffusione, per questo vi chiediamo se possibile di farci sapere con un minimo di anticipo gli appuntamenti che si stanno organizzando per l’11 aprile in ogni parte del paese, con messaggi semplici in cui siano ben identificabili luogo, orario e nel caso siano nei giorni vicini all’11 anche la data. Facciamo uno sforzo insieme per riuscire a diffondere a tutti i messaggi e le possibilità che questo movimento in maniera eccezzionale si sta dando. Come sito notav.info abbiamo così pensato di creare un calendario della settimana no tav in Italia che sia sempre ben visibile e che ci auspichiamo venga diffuso appena pronto il più possibile. Per fare cio’ abbiamo creato un indirizzo mail apposito a cui potete scrivere cercando di evidenziare già nell’oggetto della mail la città, la data l’ora e il luogo per facilitarci quello che speriamo sarà un enorme lavoro di sintesi e stesura. L’invito dove possibile è anche quello di creare delle iniziative il più unitarie possibile (eviatndo di fare molteplici iniziative nella stessa città) cercando di unire le forze e le idee provando a cogliere quello che è ed è sempre stato uno dei punti di forza della valle di Susa. FORZA E CORAGGIO A TUTTI! SI PARTE E SI TORNA INSIEME!

CALENDARIO work in progress

MILANO 11 aprile ore 18.00 piazzale cadorna

ROMA 11 aprile ore 17.00 piazzale Tiburtino (altri appuntamenti su romanotav.info)

TORINO 11 aprile ore 18.00 piazza Castello (per tutta la giornata infopoint alla tenda del presidio ascoltateli)

PALERMO 11 aprile ore 16.30 corteo partenza ore 16.30 teatro Massimo

VENEZIA 11 aprile ore 16.00 campo San Giacomo

PISTOIA 11 aprile ore 10.00 piazza Duomo (davanti prefettura) ore 16.00 piazza Gavinana (a seguire lezione prof. Cancelli no tav velle di Susa)

TRIESTE 11 aprile ore 17.30 via delle Torri (dietro p.s. Antonio)

REGGIO EMILIA 11 aprile ore 17.30 rotonda antistante cantiere tav della stazione Mediopadana

TRENTO 11 aprile ore 18.00 piazza Duomo

LIVORNO ore 17.30 viale Carducci angolo Bar “Il Tramezzino”

pc 7 aprile - 3 anni dopo all'aquila.. una immensa tristezza domanda rabbia e lotta perchè i responsabili delle tante morti paghino per davvero !



la solidarietà dalla associazione contro la strage di viareggio


ancora 33 mila senza casa


top — 6 aprile 2012 04:24 L’Aquila 3 anni dopo. Vivere, resistere, ricostruire. Riflessioni dal comitato 3e32
da 3e32.com

6 aprile 2009, 6 aprile 2012. Le ricorrenze, si sa, inducono ai ricordi, alle comparazioni, ai giudizi. Proviamo allora ad utilizzare questa occasione, il terzo anniversario del terremoto dell’Aquila, per fare un bilancio, necessariamente parziale e provvisorio, di questi tre anni post-sisma; un bilancio che ci serve non a cristallizzare una verità definitiva, ma a darci dei punti di riferimento da cui guardare al futuro.

La memoria non è mai qualcosa di neutrale o indifferente, così come non lo sono le narrazioni. Scegliere cosa raccontare, e il modo in cui farlo, significa scegliere quali punti di vista e quali valori trasmettere: non a caso si dice comunemente che “la storia la scrivono i vincitori”. Ebbene, la storia “ufficiale” della nostra città è purtroppo fin troppo nota, è la storia del “miracolo aquilano” di Berlusconi agghindato con il casco da pompiere, del salvatore della patria Guido Bertolaso, dei salotti televisivi di Bruno Vespa. Un triste miscuglio di menzogna e retorica degno dei copioni delle peggiori fiction di Mediaset.

Quella che noi vogliamo ora raccontare è invece la storia non certo dei vinti, ma dei resistenti, di coloro che mai un momento si sono rassegnati alla tragedia, mai piegati al saccheggio di questa città, e che da tre anni si battono ogni giorno, spesso in condizioni durissime, per restituire dignità e futuro alla loro terra. Questa è la nostra storia.

Durante l’inverno del 2009 la zona dell’Aquila fu interessata per mesi da uno sciame sismico di intensità e frequenza crescenti; nel corso di gennaio, febbraio, marzo le scosse si susseguivano ed erano sempre più forti. La faccenda resuscitava tra le persone una sorta di spirito folkloristico, dovuto al fatto che l’esperienza del terremoto è impressa nella storia della città; L’Aquila è infatti notoriamente zona sismica, ed è stata distrutta da terremoti almeno due volte, nel 1349 e nel 1703 – ed entrambe le volte ricostruita, più bella e più forte di prima. Al rischio sismico si pensava quindi con un’apprensione mista però ad ironia e ad un vago fatalismo, che si trasmetteva nell’espressione comune “A L’Aquila il terremoto c’è ogni trecento anni, e adesso tocca a noi..”.

Ma le scosse continuavano, e la preoccupazione cresceva. Il 31 marzo 2009 ci fu una riunione della Commissione Grandi Rischi, a cui parteciparono i massimi esperti di sismologia, i vertici della Protezione Civile, le istituzioni locali, che in 18 minuti decretarono che a L’Aquila non c’era nessun pericolo. Quella sera Bernardo De Berardinis, vice-capo della Protezione Civile, dichiarava alle televisioni “Aquilani state in casa tranquilli, e bevete un buon bicchiere di Montepulciano d’Abruzzo”.

Non fu data alcuna allerta, nessun piano di evacuazione né di assistenza fu predisposto. Edifici considerati a rischio non furono messi in sicurezza. Oggi dalle intercettazioni sappiamo che per Bertolaso quella riunione non era altro che “un’ operazione mediatica”.

Il 6 aprile 2009, alle 3.32, una scossa di magnitudo Richter 6.3 devastò la città e uccise 309 persone.

Quella notte i Vigili del Fuoco in servizio erano sette. Della Protezione Civile neanche l’ombra.

Quella notte c’erano solo gli aquilani, che scavarono sotto le macerie con le mani, aiutandosi a vicenda, i primi corpi furono estratti così.

Poi arrivarono le telecamere, e con queste “la macchina dei soccorsi” e il governo.

La prima cosa di cui la Protezione Civile si occupò fu di spezzare la catena spontanea di solidarietà e organizzazione che si era creata tra le persone nell’affrontare il disastro, e di assumere il controllo esclusivo degli aiuti. Nel giro di 24 ore fu imposto a tutti di chiudersi nelle tendopoli o di lasciare la città. Non c’erano più aquilani, abitanti, cittadini: solo sfollati. Centoquattromila sfollati. L’intera città fu dichiarata inagibile, “zona rossa”, e presidiata dall’esercito. Il capo della PC Bertolaso, nominato subito dal governo Commissario Straordinario per l’emergenza, esautorando completamente le istituzioni locali, si installò nel bunker della caserma della Guardia di Finanza, mura alte dieci metri, filo spinato e guardie armate, ribattezzato con un nome sinistro: DICOMAC, Dipartimento di Comando e Controllo.

Per gli avvoltoi cominciava il banchetto.

“Se l’umanità una buona volta dovrà rimetterci la pelle, non sarà per un terremoto o una guerra, ma per un dopo-terremoto o un dopo-guerra”. (Ignazio Silone, Uscita di sicurezza 1965)

Nei primi mesi che seguirono il terremoto del 6 aprile 2009 lo scenario aquilano era fatto di case squarciate, macerie ovunque, il centro storico chiuso e presidiato, posti di blocco militari continui. La gente era chiusa nelle tendopoli, o negli alberghi sulla costa, o si trascinava nelle interminabili file all’interno del DICOMAC che era necessario affrontare per accedere a qualsiasi tipo di informazione.Il confine tra solidarietà e ingerenza, tra aiuto e oppressione può essere molto sottile, soprattutto se si ha a che fare con una popolazione stremata e sotto shock, che non è in grado di reagire o negoziare. Possiamo dire tranquillamente che l’”esercito del bene”, la massa di volontari della Protezione Civile che si riversò a L’Aquila nell’estate del 2009 questo confine lo abbia ampiamente varcato. Probabilmente in buona fede, animati dalle migliori intenzioni e dal sacro fuoco della carità, queste migliaia volontari giunti da tutta Italia si dedicarono con il massimo zelo ad assistere gli sfollati nei campi, a fornirgli riparo, pasti e vestiti: e con il medesimo rigorosissimo zelo con cui obbedivano agli ordini dei vertici che vietavano ai terremotati il caffè e la cioccolata, impedivano loro di fare riunioni e volantinaggi, scoraggiavano visite e uscite. L’imponente macchina della Protezione Civile si rivelò ben congegnata nel produrre effetti precisi nelle persone: tramite gli aiuti dipendenza, tramite la dipendenza gratitudine, tramite la gratitudine l’obbedienza. Il meccanismo era perfetto: aquilani, vi aiutiamo così tanto che non potrete fare a meno di noi, e non potrete dirci altro che grazie, e accettare senza riserve né critiche tutto ciò che faremo per voi, e di voi. Il massimo dispiegamento della beneficenza aveva lo scopo di garantire il controllo completo della città e della popolazione (anche geografico: tutta la vita era organizzata in base alle tendopoli) e il massimo consenso d’opinione locale e nazionale. Da subito una campagna mediatica pressoché unanime e potentissima si adoperò nel santificare l’intervento del governo e della PC e nel liquidare qualunque osservazione come polemica strumentale; sappiamo ora delle telefonate in cui Bertolaso chiede a Gianni Letta di tenere a bada i giornali. La rappresentazione pubblica della situazione aquilana divenne quella di una terra di derelitti ormai incapaci di provvedere a sé stessi, che i potenti si degnavano di aiutare per grazia e generosità; i terremotati furono immediatamente declassati da cittadini, portatori di diritti esigibili, a sudditi supplicanti che potevano al massimo aspirare alla carità, e da cui ci si aspetta solo gratitudine. La gestione politica di questo meccanismo si incarnò in forma peculiare nella figura di Guido Bertolaso, commissario dotato di potere assoluto sul territorio e investito da una sorta di aura eroica che gli consentì di impostare i rapporti con la popolazione e gli enti locali in una vera e propria modalità “pastorale”, con un autoritarismo basato sulle leve affettive ed emotive prodotte dalla tragedia.
Eppure qualcosa sfuggì da subito al piano. I familiari delle vittime si mossero immediatamente per ottenere la verità sui crolli e la mancata prevenzione, accusando chiaramente chi per interesse o negligenza non aveva fatto il necessario per evitare la tragedia (oggi i membri della Commissione Grandi Rischi sono sotto processo per omicidio colposo).

E poi a pochi giorni ancora dal sisma, alcune persone, giovani perlopiù, si resero conto che qualcosa non andava: che quell’autoritarismo dal volto assistenziale non poteva essere la via giusta per ricostruire la città, che c’era bisogno di darsi da fare in prima persona e non di prendere ordini. Sabbia nell’ingranaggio, riuscirono a creare all’interno Parco Unicef un campo libero e autogestito, subito battezzato Piazza 3e32: uno spazio finalmente aperto e a misura di persona, dove era possibile muoversi e incontrarsi liberamente. Furono organizzate assemblee per monitorare e analizzare insieme ciò che stava accadendo intorno, concerti, spettacoli, serate per rimettere in circolo un po’ di allegria dopo tanto dolore; si cercava di mettere in contatto i vari comitati cittadini che stavano nascendo, di fare proposte per affrontare l’emergenza e la ricostruzione. A Piazza 3e32 gli aquilani cominciavano a riprendersi la vita e la parola.

Nascevano così il comitato 3e32 e la nostra lotta, fatta di piccoli e grandi gesti di resistenza quotidiana, capillare, continua; nascevano le prime parole d’ordine per la ricostruzione di una città migliore, al 100% di sostenibilità, partecipazione, trasparenza, le prime difficili iniziative pubbliche, i primi tentativi di riconnettere una comunità frammentata e impaurita, lo sforzo di coniugare la critica e anche la rabbia di quei momenti con la sensibilità necessaria per parlare a tutti.

Il G8 del luglio 2009, assurdamente spostato nella “città del dolore”, calato come un’astronave di marziani in un contesto di devastazione, lì dove nessuno avrebbe potuto organizzare proteste, fu tra le prime sfide che dovemmo affrontare. Il summit era parte della strategia di controllo e consenso, lo sbarco dei potenti, si diceva, sarebbe servito ad attirare l’attenzione del mondo intero, e i suoi soldi per contribuire a rimettere in piedi la città. Costò agli aquilani ulteriori disagi, e 184.897.674,92 euro, sottratti ai fondi per la ricostruzione, spesi per le piste di atterraggio degli elicotteri presidenziali, per i regali alle first ladies, per il campo da basket di Obama. Da lui, Merkel, Sarkozy &Co. per L’Aquila non è mai arrivato un centesimo. Ci fu chi scelse di contestare comunque quel G8 in modo “tradizionale”, organizzando un corteo nazionale nonostante il contesto difficile, ci fu chi mise al primo posto l’esigenza di farsi capire da più persone possibili, di non forzare gli animi già esasperati degli aquilani, di spiegare al mondo in quali condizioni paradossali si riunivano i “grandi”; sulle montagne comparve, gigantesca, la scritta “YES WE CAMP”, e mentre Carla Bruni piangeva ad orologeria davanti alle macerie e ai fotografi, le “last ladies” aquilane sfilavano ricordando a tutti la distanza tra il palcoscenico e la realtà.

Berlusconi scorrazzava tra le macerie con in testa il casco da pompiere e regalava dentiere alle vecchiette nei campi, seguito da un Bertolaso con mascella contratta e polo blu della PC, entrambi protagonisti di un circo mediatico ben orchestrato a loro uso e consumo; e insieme pianificavano la realizzazione dell’unico vero scopo a cui si deve il massiccio intervento del governo a L’Aquila dopo il sisma. Non la solidarietà, non la ricostruzione, ma una gigantesca speculazione su un territorio ferito e inerme. Ecco a cosa dovevano servire lo stordimento, il consenso, l’acquiescenza dei terremotati. Iniziava la fase in cui dietro il paravento della retorica degli aiuti lo strapotere di Bertolaso e della PC, braccio operativo del governo, avrebbe consentito abusi, sperpero di fondi e corruzione di ogni genere.

Il Progetto C.A.S.E. (le famigerate “new-town” che Berlusconi aveva annunciato con i morti ancora sotto le macerie) fu il primo e più importante pezzo di questa speculazione. 19 giganteschi complessi-dormitorio per 14.000 su 70.000 sfollati, collocati su aree verdi distruggendo i terreni attorno alla città, senza servizi né viabilità adeguata, costruiti a tempo di record in deroga a tutte le norme sugli appalti e sul lavoro. Costo: circa un miliardo di euro (di cui 300 milioni donati dall’Unione Europea secretati dalla PC, spariti chissà dove). Risultato: la nostra comunità, “provincialmente” abituata ad una vita sociale basata sul centro storico e sui quartieri, fu disgregata e ghettizzata, le nostre campagne devastate per sempre, milioni di metri cubi di nuovo cemento, e intanto nessuna iniziativa per la ricostruzione.

Ci sarebbero state allora delle alternative possibili: costruire moduli abitativi provvisori (i cosiddetti M.A.P.) molto meno dispendiosi (circa un terzo del costo delle new town) e soprattutto removibili, oppure requisire le case sfitte agibili presenti nel territorio aquilano (prima del sisma, L’Aquila stava attraversando una crisi immobiliare: i costruttori avevano costruito troppo e si ritrovavano con migliaia di appartamenti nuovi e invenduti). La scelta di non recuperare nulla dell’esistente, né di risparmiare in vista della ricostruzione ma di costruire ancora spendendo così tanto, fu tutta politica; fu la scelta di favorire gli affari dei gruppi d’interesse legati al governo, di trasformare la tragedia di tutti in un ghiotto business per alcuni.

Denunciare tutto questo, informare i media e la popolazione,avanzare proposte alternative non bastò a fermarli. Ci scontravamo con una macchina di potere efficientissima e determinata, e costruire un fronte comune nella cittadinanza risultò impossibile a causa della dispersione, della difficoltà materiale a creare momenti di incontro e discussione. Inoltre, la propaganda berlusconiana “dalle tende alle case” rispondeva terribilmente bene ad un bisogno reale e ineludibile; stremata da mesi di vita nelle tende, la maggioranza delle persone desiderava solo un tetto sulla testa, e non aveva né la disposizione né le energie di mettere in discussione che tipo di tetto gli venisse dato, e a che prezzo. Qualunque obiezione sull’operato del governo si infrangeva su un muro mediatico cementato nella celebrazione; qualunque critica veniva degradata come “ingratitudine” o come arretratezza, incapacità di comprendere le avanzatissime soluzioni portate avanti dai nostri salvatori, chiudendo lo spazio per ogni riflessione o discussione. Insomma, se non ti stava bene le C.A.S.E. di Berlusconi allora eri automaticamente un selvaggio desideroso di installarsi in un container come quelli usati in Irpinia..

Ciò che accadde allora a L’Aquila è ascrivibile ad un modello che abbiamo visto in opera anche altrove, ad esempio nelle discariche campane e in Val di Susa, ovunque ci fosse una “grande opera”, costosissima, inutile per la popolazione ma utilissima per gli speculatori, da costruire ; un modello che prevede la militarizzazione del territorio, la gestione commissariale dei rapporti politici e istituzionali, la criminalizzazione mediatica e poi anche penale di chi si oppone. Il modello con cui i nostri governi continuano a imporre, nella crisi generale, i profitti di pochi a danno di tutti.

Ma il trend di speculazione sull’Aquila non si limitò al Progetto C.A.S.E.; dopo il terremoto, gli affitti delle case agibili salirono alle stelle, senza che la PC ponesse alcuna calmierazione, alcun limite ai vantaggi di grandi costruttori e rendite immobiliari. Nel mentre, il super-commissario Bertolaso spendeva e spandeva a suo piacimento senza alcun controllo i fondi per l’emergenza, triplicando ad esempio gli appalti per i bagni chimici dei campi, fino all’assurda cifra di 33 milioni di euro, o regalando 9 milioni al comune di Celano, che risultava fuori dal cratere sismico ma era governato dal suo amico Filippo Piccone, coordinatore abruzzese del PDL. Le case sfitte agibili, inoltre, anzichè essere requisite e assegnate gratuitamente ai bisognosi, vennero date in gestione ad un fondo d’investimento privato, autorizzato a riscuoterne gli affitti.

Alla fine dell’estate del 2009 era già chiaro che bisognava fermare “le mani sulla città”, combattere contro l’ulteriore scempio e il saccheggio del territorio; dal comitato 3e32 e dall’esperienza del parco Unicef nacque l’occupazione di Casematte, un edificio abbandonato di proprietà pubblica ll’interno dell’area dell’Ex Ospedale Psichiatrico di Collemaggio che venne recuperato grazie al lavoro collettivo e volontario e trasformato in una soluzione abitativa libera e autogestita, in un luogo di cultura e socialità e in un presidio permanente contro la speculazione.

Nell’inverno 2010 la ricostruzione era ancora ferma, il centro storico una zona rossa presidiata militarmente e inaccessibile ai cittadini, che non potevano neanche avvicinarsi alle proprie case. Le macerie, dopo quasi un anno e miliardi di euro spesi, erano ancora tutte lì, nessuno le aveva rimosse.

La registrazione della famosa telefonata tra i due imprenditori che la notte del terremoto ridevano pensando ai guadagni che ne avrebbero tratto ebbe improvvisamente l’effetto di un detonatore, aprì uno squarcio nel torpore infiammando la rabbia degli aquilani. Cominciò a farsi strada la consapevolezza dell’enorme beffa subita; diventava evidente che dopo aver ottenuto la vetrina mediatica e incassato le mega-speculazioni il governo aveva abbandonato la città, che mancava la volontà politica di ricostruire; al “miracolo berlusconiano”, alla santità di Bertolaso ci si credeva sempre meno.

Nel frattempo Bertolaso e la PC avevano lasciato la città, sostituiti da un’altra struttura commissariale che vedeva al vertice il presidente della Regione, Gianni Chiodi (PDL), e il sindaco dell’Aquila Massimo Cialente come suo vice: un nuovo apparato, inefficace e altrettanto dispendioso del precedente, nessuna volontà di ripristinare i “normali” spazi democratici e di rapporto con la cittadinanza.

Il 14 febbraio 2010 centinaia di aquilani forzarono il posto di blocco dell’esercito ed entrarono nella zona rossa del centro storico. Volevano vedere con i loro occhi in che stato era la loro città, ma soprattutto volevano rompere il meccanismo di potere e di bolla mediatica che li voleva emarginati rispetto alle decisioni, sottomessi, afoni. Fu un gesto di ribellione dopo mesi compressi che finalmente mise in circolo la voglia di fare, riprendersi le vite e la città.

Nasceva il movimento delle carriole: tutte le domeniche, per mesi, migliaia e migliaia di aquilani armati di carriole, pale, secchi, caschi rompevano i divieti e tornavano nelle loro strade e piazze per fare collettivamente e autonomamente ciò che commissari dispotici ed istituzioni inette non erano stati in grado di fare; togliere le macerie, differenziandole in modo che fossero riciclabili, e compiere così il primo passo per la ricostruzione della città.

Fu una primavera bellissima, in dopo un lungo periodo di frustrazione le persone alzarono la testa; in Piazza Duomo, il cuore della città, venne creato un presidio permanente dove ci si ritrovava in affollatissime assemblee cittadine. Si iniziarono ad affrontare i problemi molto concreti della situazione post-sismica, come la mancanza di fondi per la ristrutturazione antisismica delle case, la restituzione delle tasse, le difficoltà economiche in cui versa il territorio, ma soprattutto ci si confrontava su un’idea di città da ricostruire insieme, su come mettere in pratica ecologia, equità, democrazia reale. Quelle che fino a poco prima erano solo slogan e desideri, la partecipazione e la autorganizzazione delle persone, si incarnavano nei corpi di moltissimi aquilani che decidevano di portare avanti una lotta, consapevoli che la ricostruzione di una città migliore era un loro compito storico. Il 16 giugno 2010 tutta L’Aquila scese in strada, fino a bloccare l’autostrada per Roma, per chiedere misure giuste ed efficaci per la ricostruzione ed il sostegno economico alla città. Non arrivarono risposte. Si decise allora di portare queste rivendicazioni lì dove bisognava sbloccare le cose, proprio in Parlamento. Il 7 luglio 2010 migliaia di aquilani invadevano pacificamente Roma, diretti a Montecitorio, decisi a non lasciarsi fermare da nessuno; non era più il momento di “essere gestiti”. Vennero aggrediti e picchiati dalla polizia, e in seguito persino denunciati. Ma non si arresero e non lasciarono la capitale prima di aver portato la loro protesta alla sede della Protezione Civile, e direttamente a casa di Berlusconi, Palazzo Grazioli. Ci rendemmo conto dopo quella giornata di quanto la nostra lotta stesse scuotendo il governo, mandando in frantumi la bolla di consenso che il premier aveva ottenuto con le menzogne sulla nostra città. Il movimento andava avanti, e prese il via l’idea di proporre una legge di iniziativa popolare che prevedesse misure per L’Aquila ma anche per la messa in sicurezza di tutto il territorio nazionale e la prevenzione dei disastri ambientali, che venne scritta collettivamente nell’assemblea cittadina, supportata da migliaia e migliaia di firme raccolte in tutta Italia ma soprattutto da iniziative e mobilitazioni.

Cresceva nel movimento la comprensione del legame tra la gestione e gli abusi sull’emergenza aquilana da parte del governo e ciò che accadeva in altri luoghi come la Val di Susa, Vicenza e la Campania che avevano subito gli stessi meccanismi di imposizione e sfruttamento; o tra la sorte delle vittime del terremoto e le vicende di Viareggio o della Thyssenkrupp, dove persone erano morte per interessi economici e mancata prevenzione, e i loro familiari si battevano per avere giustizia. Il 20 novembre 2010 una manifestazione enorme vedeva gli aquilani uniti a migliaia di persone da tutta Italia ancora per la ricostruzione dell’Aquila, ma anche contro la gestione della crisi a svantaggio dei più deboli da parte del governo e contro il modello di vessazione dei territori.Nei mesi successivi abbiamo continuato a portare avanti una sorta di guerra di posizione, impegnandoci ogni giorno a strappare metro per metro qualcosa alla speculazione e a restituirlo alla nostra terra e ai suoi abitanti.

La nostra città ha subito in seguito al terremoto un processo di metropolizzazione forzata, in gran parte causato dalla costruzione del Progetto C.A.S.E., per cui è passata da essere una città di provincia tradizionale, organizzata intorno al suo centro storico, ad un territorio estremamente vasto e caotico, disperso intorno a centri commerciali e capannoni industriali. Tutto questo senza la minima pianificazione, con conseguenze di viabilità impazzita, mancanza di servizi e luoghi aggregativi. Ne risulta una qualità della vita pessima e condizioni sociali drammatiche, a cui va sommata una depressione economica profonda del territorio che raddoppia la crisi generale con aziende e commercio in crisi, migliaia di disoccupati, cassintegrati e precari. L’abuso di alcolici, droghe e psicofarmaci è in aumento e sta diventando un fenomeno preoccupante. Davanti a questo scenario le istituzioni risultano del tutto incapaci; buona parte della nostra battaglia sta quindi nel cercare di fronteggiare non solo il problema della ricostruzione edile, ma anche le emergenze sociali della città. La riapertura e il recupero, nel gennaio 2011 di un altro spazio per attività culturali e ricreative, un ex asilo comunale in centro storico, in buone condizioni strutturali ma abbandonato, è proprio un tentativo in questo senso, che aggiunge un’altra esperienza di aggregazione e auto-organizzazione tra le persone.

Spesso ci viene spontaneo dire che vivere qui è un po’ come stare in trincea, in un senso politico ma prima ancora umano ed emotivo, perché si vive ogni giorno sull’orlo dell’invivibilità, nella difficoltà di fare cose anche banali in una città surreale che a tratti sembra quasi una favela, nell’incertezza non solo del domani ma anche del presente.

Dobbiamo affrontare la difficoltà di avere da troppo tempo mille fronti aperti e mai un nemico unico, identificabile, localizzabile, mai un punto chiaro dove poter “attaccare”; vivere in una città disgregata significa anche che i centri del potere e delle responsabilità sono quanto mai mimetizzati, se non addirittura invisibili e aerei (in senso anche letterale: i politici del governo arrivano sempre in elicottero..); e che le responsabilità stesse sono frammentate e distribuite in una sorta di groviglio di cui è difficile trovare il capo.

Stiamo facendo i conti, onestamente, con il disagio che si crea quando si comprende che scendere in piazza in migliaia, per mesi e mesi, non è bastato a risolvere i nostri problemi, davanti all’evidenza che la nostra lotta sarà necessariamente una lotta di resistenza, e quindi dura, difficile, quotidiana, lunga quanto potrà essere lunga la ricostruzione di una città; dieci, venti, cento anni?
E la nostra resistenza qui è anche reinventarsi ogni giorno un modo di stare insieme, ritessere rapporti tra le persone e reti sociali, mettere in circolo idee, creatività, allegria laddove tutto è frammentato, disperso, ingrigito.
A L’Aquila oggi anche una scritta su un muro o una pista da skateboard possono essere straordinariamente importanti. Per questa tenacia paghiamo anche un prezzo: gli attivisti aquilani sono stati colpiti da decine di denunce in questi tre anni, per cui stanno già subendo processi. Tentativo di intimidirci e fermarci, tentativo fallito.
Il terremoto del 2009 è stato senza dubbio una catastrofe; e quindi, come qualsiasi catastrofe nella storia dell’evoluzione del mondo, ha distrutto delle cose, delle forme di vita, ma ne ha fatte sorgere delle altre. Anzi, la sfida della ricostruzione è riuscita ad attivare dei processi di incontro e comunicazione tra le persone che prima sembravano impossibili, a sprigionare delle risorse e delle energie inaspettate, a riattirare verso la città molte persone che se ne erano allontanate. Oggi infatti, anche grazie all’ostinazione di alcuni che ci hanno creduto fin dall’inizio e si sono impegnati senza fermarsi mai, L’Aquila non è solo un luogo di memorie tristi e disagio, ma anche una città dove si ride e ci si diverte, si organizzano continuamente eventi di ogni tipo, si cerca di promuovere “dal basso” la sperimentazione artistica e culturale. Abbiamo capito che la nostra scommessa politica è prima di tutto una scommessa di vita, che sta tutta nella capacità di saper ricomporre una collettività prima ancora che degli edifici, affermare determinati valori come equità, antirazzismo e accoglienza, tutela dell’ambiente, in cui riconoscersi. Più che restaurata, o semplicemente ricostruita, la nostra città deve essere rifondata.
Battersi per L’Aquila oggi significa in primo luogo opporsi alle speculazioni edilizie e all’ulteriore consumo di suolo e territorio, che minaccia di divorare ciò che rimane delle nostre aree verdi, ma anche contrastare in un quadro più ampio le politiche economiche e sociali di questi governi che scaricano i costi della crisi sui più deboli, ostacolando ulteriormente la ripresa di contesti come il nostro; significa battersi contro questa gestione del debito e del denaro pubblico, che viene sprecato a favore delle banche, delle lobbies di affari e in grandi opere inutili, anziché essere investito in istruzione, sanità, trasporti e per contrastare la povertà.
La nostra è certamente una lotta territoriale, con la sua identità e le sue specificità, ma è anche una lotta per un modello complessivo fatto di politica trasparente, di decisioni realmente democratiche e partecipate, di rispetto del patrimonio ambientale e culturale e sviluppo eco-sostenibile.
E’ una lotta estenuante e spesso difficile da spiegare; per questo abbiamo scritto queste pagine, certamente lunghe ma necessarie per raccontare come mai, dopo tre anni, non ci basta la celebrazione rituale, siamo stufi della retorica della tragedia, rifiutiamo di sentirci ancora vittime. Noi siamo vivi, non siamo in ginocchio ma in piedi, pieni non più di tristezza ma di rabbia, e vogliamo andare avanti. Questa è la nostra terra, la nostra città, la nostra vita, e noi la amiamo. Non molleremo mai.“Dovete avere il coraggio non di restaurarla ma di ricostruirla questa città. Siete aquilani.. e fatelo no? “
(Mario Monicelli, 2010, ultima dichiarazione prima di morire)

pc 7 aprile - La corruzione della Lega, forma volgare della corruzione esistente in tutti i partiti parlamentari - tutti vanno spazzati via!

Usare i soldi dello stato per pagare il diploma e la laurea a Rosy Mauro, persona di livello intellettuale e umano al di sotto di ogni sospetto..
Usare i soldi della politica per far vivere bene la famiglia e metterla in politica...
Bossi incarna in forme volgari ciò che tutti i partiti parlamentari fanno oggi a livello più alto o più sofisticato.
La politica parlamentare borghese è oggi come ieri, oggi più di ieri, nella sostanza questa.. è sempre più il degrado personale, familistico e di cricca del fatto che essa serve gli interessi di classe 'privati' della borghesia imperialista italiana e si svolge nel quadro del sistema capitalistico basato sul profitto frutto dell'estorsione del plusvalore e sull'appropriazione privata della ricchezza prodotta dal lavoro socializzato.
Le elezioni e il Parlamento in regime borghese non sono nè possono essere quindi nè democratiche, nè vera espressione di ideali, progetti, costruzione di un mondo migliore..
La politica proletaria non può che essere, oggi più che mai, fuori e contro tutto questo, anzi la politica proletaria ha lo scopo di rovesciare tutto questo come parte ed esito del rovesciamento del sistema capitalistico.
La battaglia per il rovesciamento del sistema e di tutto questo è l'unica forma di politica che trasforma i proletari e le masse popolari in corso d'opera.
Senza questo proletari e masse popolari sono vittime e anche parte invece dello stesso degrado politico sociale e umano del sistema borghese.
Noi non pensiamo che nei partiti parlamentari,tutti, la base sia sana e il vertice corrotto; la base fosse anche operaia e proletaria condivide in genere il sistema di valori e di fare politica del vertice, dando di fatto ad esso consenso e sostegno pratico. La differenza è che non ne trae in genere giovamento in termini di effettivo arricchimento individuale.
Il partito proletario e la coscienza proletaria comincia quando ci si ribella a tutto questo e al sistema che lo produce, si odia tutto questo, si vuole distruggere tutto questo, e si fonde con la scienza rivoluzionaria marxista-leninista-maoista che permette di trovare il programma e la strada per riuscire davvero nello scopo.

proletari comunisti - PCmItalia
7 aprile 2012

venerdì 6 aprile 2012

pc 7 aprile - Palestina: basta con gli accordi di "pace" che servono solo agli interessi dello stato terrorista e neocoloniale israeliano!

L'ANP ricomincia l'ennesima trattativa-resa con lo stato terrorista e neocoloniale israeliano che sta intensificando la costruzione di nuove unità abitative nelle colonie.
Dal carcere israeliano dove è rinchiuso, ha fatto sentire la sua voce Marwan Barghouti, il popolare leader di Fatah della seconda Intifada palestinese, condannato nel 2002 a vari ergastoli dai tribunali di Israele. Barghouti in un messaggio letto in pubblico due giorni fa a Ramallah afferma la necessità per i palestinesi di lanciare «una resistenza popolare su ampia scala» contro la occupazione, nonchè di mettere fine «ad ogni forma di cooperazione di sicurezza o economica con Israele». Barghouti aggiunge che è giunto il momento «di cessare di vendere la illusione che esista la possibilità di mettere fine alla occupazione e di raggiungere la costituzione di uno Stato indipendente mediante negoziati… Questa visione è fallita miseramente».

ANP RIPRENDE COLLOQUI CON ISRAELE, TRATTATIVA O RESA?
Ieri notte incontro in Giordania tra i team di negoziatori. Entro un mese il premier israeliano Netanyahu e il palestinese Fayyad al tavolo dei negoziati. Prosegue un processo di pace che in 20 anni ha cancellato le ambizioni palestinesi. E Israele mostra la sua forza: 1.121 nuove unità abitative nelle colonie.
EMMA MANCINI
Beit Sahour (Cisgiordania), 5 aprile 2012, Nena News
Dopo vent’anni di negoziati fallimentari che hanno portato al tavolo del “dialogo” l’occupante e l’occupato, Israele e Palestina presentano alla comunità internazionale un nuovo impegno. Come annunciato da funzionari del governo di Tel Aviv, il prossimo mese sarà teatro di un incontro tra il premier Benjamin Netanyahu e il primo ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad.
Un nuovo tavolo, avviato in Giordania a gennaio e sponsorizzato dal Quartetto per il Medio Oriente, che si apre sotto la pesante ombra delle politiche coloniali israeliane: mentre il governo sta lavorando alla legalizzazione di altri tre insediamenti (illegali per la legge israeliana) in Cisgiordania, ieri è stata annunciata l’apertura di una gara d’appalto per la costruzione di 1.121 nuove unità abitative in tre diverse colonie israeliane in territorio palestinese.
Il bando è stato presentato ieri dal Ministero israeliano per l’Edilizia: il piano prevede la costruzione di 872 unità abitative nella colonia di Har Homa (Abu Ghneim, il nome arabo), insediamento di Gerusalemme Est, che divide la Città santa da Betlemme. Una colonia iniziata alla fine degli anni Novanta e che ha portato alla distruzione della foresta che copriva la collina di fronte al villaggio di Beit Sahour. E se in molti raccontano che almeno un terzo delle case destinate ai coloni sono ancora vuote, l’espansione di Har Homa (trasformata in breve in un quartiere di Gerusalemme dopo la costruzione del Muro di Separazione) prosegue.
Il piano prevede inoltre la costruzione di 180 unità abitative nella colonia di Givat Zeev, a Nord di Gerusalemme, e 69 a Katzrin nelle Alture del Golan. Immediata la reazione dell’Autorità Palestinese. Il presidente Abu Mazen, tramite un portavoce, ha condannato l’espansione coloniale israeliana ritenendola l’ennesimo ostacolo al processo di pace.
Un processo che però pare continuare. Nonostante le politiche israeliane e le continue dichiarazioni palestinesi (“Nessun tavolo se Israele non congela l’espansione delle colonie in Cisgiordania”), la parte palestinese sembra intenzionata ad incontrare il premier Netanyahu a cui consegnerà una lettera nella quale attribuisce il fallimento della road map del 2003 al progetto coloniale israeliano. Dall’altra parte del Muro di Separazione, l’ufficio del primo ministro israeliano si difende affermando che Tel Aviv è pronta a tornare al tavolo del dialogo senza precondizioni.
Secondo l’annuncio via Twitter del portavoce di Netanyahu, Ofir Gendelman, i due premier si incontreranno a breve, dopo la festa religiosa della Pasqua Ebraica che commemora la fuga dall’Egitto e la fine della schiavitù del popolo ebraico, e che terminerà il 13 aprile.
L’Autorità Palestinese ha confermato: al meeting saranno presenti il premier Fayyad, il funzionario Yasser Abed Rabbo e il capo negoziatore Saeb Erakat. Tra le mani del team palestinese, la lettera che Abu Mazen ha redatto per Netanyahu, nella quale il presidente dell’AP presenta le condizioni necessarie al dialogo e avverte la controparte: mantenere un simile status quo rende inutile il ruolo del governo di Ramallah. Alla lettera, secondo Gendelman, il premier israeliano risponderà immediatamente con una seconda missiva da consegnare a Fayyad.
Nelle scorse settimane, Abu Mazen aveva minacciato lo scioglimento dell’Autorità Palestinese, totalmente dipendente dagli aiuti finanziari stranieri e dagli interessi politici israeliani, che hanno finito per saccheggiarne doveri e responsabilità. Un potere che dal 1993 l’Autorità Palestinese non è mai riuscita ad esprimere, trasformandosi per molti nel braccio israeliano nei Territori Occupati.

Il progetto "Greater Jerusalem": allargare i confini della città ad Est fino alla Valle del Giordano (Fonte: Passia)
Tanto da far dire a uno dei membri del Comitato Centrale di Fatah, Nabil Shaath, che i palestinesi sono pronti ad accettare il riconoscimento di uno Stato di Palestina indipendente nei confini del 1967 se Israele congela immediatamente la colonizzazione della Cisgiordania. Un simile atteggiamento (presentarsi al tavolo dei negoziati con il profilo – e quindi le richieste – più basso invece che con quello più alto) deriva direttamente dalle pressioni dei Paesi occidentali, che possono esercitare una significativa influenza in quanto detentori dei portafogli che permettono all’AP di sopravvivere.
Ma che deriva anche dall’approccio tradizionale della diplomazia palestinese, che dagli Accordi di Oslo del 1993 si è sempre seduta al tavolo del dialogo vanificando ogni tentativo di ottenere il massimo, se non inutili briciole di un piatto che si fa sempre più distante. E cancellando precondizioni fondamentali, come lo status di Gerusalemme e il diritto al ritorno dei quasi sette milioni di rifugiati all’estero.
Eppure, secondo il quotidiano israeliano Ha’aretz, Netanyahu sarebbe pronto a discutere di tutte le questioni pendenti da quasi 64 anni: confini, rifugiati, risorse idriche, colonie e Gerusalemme. Ma avrebbe posto una condizione irrinunciabile, figlia della natura sionista dello Stato israeliano: l’Autorità Palestinese deve riconoscere Israele come Stato ebraico. Condizione che inficia irrimediabilmente il diritto al ritorno dei rifugiati, la maggior parte dei quali provenienti da città e villaggi oggi in Israele, e lo status di Gerusalemme come capitale palestinese.
E proprio l’espansione delle colonie di Har Homa e Givat Zeev è la prova concreta di una delle politiche considerate vitali da Tel Aviv: la giudaizzazione della città santa prosegue inarrestabile, insieme al cosiddetto progetto della “Greater Jerusalem”, l’ampliamento dei confini della municipalità della città attraverso l’annessione di terre palestinesi e colonie in Cisgiordania. Con un obiettivo chiaro: arrivare tramite la cintura di insediamenti israeliani costruiti ad Est di Gerusalemme fino alle porte della Valle del Giordano, dichiarata unilateralmente da Israele zona militare chiusa. La diretta conseguenza? La separazione fisica della Cisgiordania in due entità territoriali, Nord e Sud, un taglio netto che renderebbe impraticabile la creazione di uno Stato di Palestina indipendente e funzionale.
Difficile per il popolo palestinese digerire ancora una volta una trattativa al ribasso che dopo vent’anni non ha fatto che peggiorare le condizioni di vita nei Territori Occupati. Vent’anni di processo di pace durante i quali, prima Yasser Arafat e poi Mahmoud Abbas, hanno rinunciato ai diritti nazionali dei palestinesi e dimenticato le ragioni e gli obiettivi del movimento di resistenza. In cambio di niente. Nena News

pc 7 aprile - "Penso che i giovani senza futuro prenderanno le armi e appenderanno i traditori nazionali a piazza Syntagma"

Grecia: testo della lettera lasciata come appello alla ribellione da Dimitris Christoulas, l'uomo che ha trasformato la sua morte a piazza Syntagma in un atto di protesta contro la borghesia greca ed europea. Ad Atene dopo il suicidio del pensionato centinaia di giovani hanno dato vita ad azioni di protesta che sono sfociate in scontri con la polizia.


*Georgios Tsolakoglou è stato il capo del governo collaborazionista durante l'occupazione nazista della Grecia durante la II^ guerra mondiale

pc 7 aprile - Digos di Genova denuncia 71 manifestanti legati ai No Tav. La vostra repressione non ci fa paura!

Genova - Sono stati denunciati dalla Digos di Genova 71 antagonisti, legati al movimento 'No Tav', che si sono resi protagonisti di disordini e proteste avvenute lo scorso febbraio durante la visita del procuratore capo di Torino, Giancarlo Caselli, venuto a Genova per la presentazione del suo libro "Assalto alla Giustizia", svoltasi a Palazzo Tursi. Sono tutti accusati di manifestazione non autorizzata, mentre a vario titolo devono rispondere di resistenza e violenza a pubblico ufficiale, travisamento, imbrattamento e danneggiamento di edifici e detenzione illecita di armi.

pc 6 aprile - la solidarietà operaia, classista e comunista con il delegato dello slai cobas sc di bergamo fatto segno di una aggressione armata

> Si esprime la massima solidarietà al delegato M.B. dello Slai Cobas,
> oggetto ieri di un'intimidazione a Bernareggio, che ha dell'incredibile
> fatto triste e camorristico, nulla a che vedere con la lotta sindacale
> coraggiosa di tantissimi delegati sindacali come M.B., il coraggio si
> dimostra non sparando, ma lottando a viso aperto contro lo strapotere dei
> padroni!
> RSU USB FOMAS OSNAGO LECCO
> RSU FIOM FOMAS CERNUSCO LOMBARDONE (LC)
>
>
> in fede
> (visciglia emanuele delegato fiom fomas cernusco lombardone lecco)

) Da Ravenna massima solidarietà a M.B, operaio immigrato dello Slai
> cobas per il sindacato di classe, delegato al magazzino KN di
> Brignano -Bergamo, per la vile aggressione a mano armata che ha subito
> prima di recarsi al lavoro. Ai padroni non basta la forza repressiva della
> polizia per fermare i lavoratori in lotta e ricorrono, come hanno fatto da
> sempre, a fascisti e criminali per intimidire ed eliminare gli operai
> ribelli. Ma s'illudono di potere fermare la lotta allo schiavismo nelle
> coop della logistica. Il terrorismo padronale rafforzerà la lotta e
> l'unità dei lavoratori.
>
solidarietà e appoggio al delegato sindacale M.B. del magazzino KN di
> brignano, e a tutti i suoi compagni di lavoro e di lotta,
> colpito da un grave gesto intimidatorio generato da quello schiavismo
> operaio che sta combattendo
> fortemente presente nelle cooperative della logistica
> ma che non deve poter riguadagnare terreno
>
> sostegno e partecipazione alle iniziative di mobilitazione.
>
>
> dalmine 4 aprile 2012
> flmu/cub bergamo
>
> flmu.cub.bg@email.it

Solidarietà di classe da parte mia, nell'attuale fase dove il Governo
> Monti colpisce duramente le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori
> e della masse popolari in genere, e c'è una rissposta di lotta, la
> repressione colpisce sia in maniera ufficiale e "legale" (legalità dei
> padroni) sia in maniera non ufficiale e mafiosa.
>
>
> Sacchi Marco
>
> S.I. Cobas della Regione Lombardia
>
partito dei CARC

Bergamo, 5 Aprile 2012

Comunicato

La sezione di Bergamo esprime solidarietà all'operaio delegato del sindacato
dello SLAI Cobas per il sindacato di classe attivo in una cooperativa presso
la ditta Kuhene Nagel di Brignano Gera d'Adda, che nella mattinata di
martedì 3 Aprile ha subito un gravissimo atto di intimidazione con
un'aggressione
armata nei propri confronti. Il delegato operaio è attivo nella
mobilitazione dei lavoratori per tutelare le condizioni di vita e di lavoro
degli operai nel settore delle cooperative, settore dove lo sfruttamento
della forza lavoro si sviluppa costringendo spesso i lavoratori in
condizioni schiavistiche.

Il procedere della crisi generale del sistema del capitale, che non può
altro che aggravarsi e trascinare nel marasma le masse popolari, rende
sempre più evidente l'incompatibilità tra gli interessi dei proletari e
quelli dei padroni che ricorrono anche all'aggressione e al terrorismo nei
confronti delle masse che lottano per difendere, rendere effettive e
generalizzate le conquiste sociali di benessere e i diritti strappati con
anni di lotte.
Sotto la direzione della classe di parassiti rappresentata dai banchieri,
dai pescecani della finanza, dalla Confindustria, dal Vaticano il nostro
paese va verso una rovina peggiore dell'attuale!
Le masse popolari possono invertire il corso delle cose se si organizzano e
impongono la loro direzione con un governo di emergenza popolare che
riscuota la fiducia delle organizzazioni operaie e popolari del paese,
attraverso un esteso movimento di mobilitazione, insubordinazione, lotta,
che determini una condizione di ingovernabilità da parte di qualsiasi
autorità espressione della classe di parassiti al potere.
Sarà un passo determinante per l'avvio del cammino verso il socialismo nel
nostro paese.

Riportiamo il comunicato del sindacato che denuncia l'atto di aggressione.
Ricordiamo che la Kuhene Nagel è stata teatro nei mesi scorsi di una
mobilitazione molto forte dei lavoratori delle cooperative con il blocco dei
cancelli, a seguito della quale la polizia e i carabinieri chiamati dai
padroni hanno aggredito gli operai in lotta, per sgomberare il presidio
anziché tutelarli contro gli abusi della proprietà.

I padroni senza gli operai non possono fare nulla
Gli operai senza i padroni possono fare tutto e meglio

Cari compagni, esprimiamo la nostra piena solidarietà al compagno delegato
> M.B.
> Siamo con lui e con tutti i compagni, i militanti, i delegati che lottano
> per la difesa degli interessi e dei diritti della classe operaia.
> Vi preghiamo di far arrivare questo messaggio al compagno e di tenerci al
> corrente dello sviluppo della vicenda.
>
> Saluti fraterni.
>
>
> --
> Piattaforma Comunista
> www.piattaformacomunista.com
>



Bernareggio - Mobilitazione per il sindacalista aggredito sotto casa
Submitted by Izz on 05/04/2012 diritti/sindacatocorruzione/mafiaslai cobas
di Marco Dozio da il Giorno

LA MOBILITAZIONE sarà "non solo locale ma nazionale", spiega il
coordinamento dello "Slai Cobas per il sindacato di classe", la sigla a cui
appartiene il ragazzo romeno che ha rischiato la vita all'alba di martedì a
Bernareggio, aggredito sotto casa da un uomo armato e incappucciato, che ha
esploso accidentalmente un colpo di pistola mancandolo per un soffio. Gli
iscritti dei Cobas ne stanno discutendo in queste ore, riuniti in assemblea.
Stanno ipotizzando forme di lotta per rispondere all'imboscata subita dal
loro delegato che lavora in un magazzino di logistica a Brignano Gera d'Adda,
nella Bergamasca. I carabinieri fin dall'inizio seguono (senza per questo
escludere altri possibili moventi) la pista che porta all'attività sindacale
del giovane, un 35enne che vive in via Dante con la moglie. «Come
coordinamento nazionale Scsc invitiamo tutte le forze del sindacalismo di
classe e tutte le forze politiche a esprimere solidarietà e a partecipare
alle iniziative di mobilitazione che saranno decise a breve».

«Vogliono stroncare la nostra lotta ma non ci riusciranno - aggiunge
Sebastiano Lamera, referente Slai Cobas della Provincia di Bergamo - Siamo
impegnati in una difficile vertenza da più di un anno, faremo comunque
valere i nostri diritti». L'episodio ha scosso tutto l'ambiente sindacale.
La solidarietà arriva anche dai vertici della Cgil brianzola. Salvatore
Campisi è il segretario monzese della Filt Cgil, in prima linea per tutelare
i lavoratori che operano nel settore della logistica e dei trasporti: «La
solidarietà va data sempre e comunque quando succedono questo casi: quello
della logistica è un mondo decisamente complicato, lo abbiamo denunciato più
volte». Intanto le indagini proseguono, con l'obiettivo di far luce su un
agguato in piena regola, studiato nei minimi dettagli se non per uccidere
quantomeno per intimidire. Il 35enne ieri ha ripreso a lavorare, ma la paura
non è passata. «Noi gli staremo sempre vicino, non lo lasceremo solo, è
ancora spaventato», conclude Lamera.

pc 6 aprile - Roma: cariche della polizia al presidio dei migranti


06 APRILE 2012

Questa mattina un gruppo di migranti hanno bloccato il traffico in via Giolitti per protestare per i diritti degli italiani di seconda generazione e degli stranieri venuti qui in cerca di un futuro migliore: "Non siamo venuti qui solo per mangiare e dormire", "Diritti dei minori", "Abbiamo diritto di chiedere asilo politico", "Vogliamo essere tutelati", questi gli slogan sui cartelli. Traffico in tilt in tutta la zona e stazione Termini blindata.

Dopo circa 45 minuti dall'inizio del blocco stradale, il cordone di forze dell'ordine presenti sul posto - in tenuta antisommossa - ha caricato violentemente i manifestanti sospingendoli fin sul marciapiede all'incrocio tra via Giolitti e piazzadei Cinquecento. Nel corso della carica almeno due manifestanti sono caduti in terra e poi, trascinati di peso, sono stati portati sulle camionette della polizia poco distanti. Ma secondo i migranti sarebbero almeno sei i fermati.

La tensione è continuata anche in seguito quando, a ondate, i manifestanti hanno cercato di rioccupare la sede stradale: gli agenti hanno fatto quindi partire una seconda carica. E dopo circa due ore di protesta la manifestazione è terminata e gli stranieri hanno lasciato via Giolitti a bordo di due autobus predisposti per accompagnarli all'Ufficio immigrazione per poter parlare della situazione.

pc 6 aprile - il governo indiano dello stato di Orissa fa un gioco sporco sulla liberazione dei prigionieri maoisti

il governo indiano deve accogliere le giuste richieste dei maoisti
arresti e detenzioni di maoisti e militanti dei movimenti di opposizione son illegittimi
tutti devono essere rilasciati
il vero terrorismo è quello del governo indiamo
noi siamo dalla parte della guerra popolare

proletari comunisti-PCm Italia

INDIA
Bosusco, sfuma l'ottimismo dal governo concessioni minime
Nella trattativa con i guerriglieri maoisti, il chief minister ha annunciato la liberazione di 27 persone, ma 23 sono in contropartita per un altro rapimento. Solo quattro su sette riguardano l'ostaggio italiano. E di questi quattro, solo tre sono nell'elenco minimo indicato dal leader Panda
dal nostro inviato PAOLO G. BRERA
Il sole è già alto da ore, in Orissa, e ancora una volta l'ottimismo sulla imminente liberazione di Paolo Bosusco si sta rivelando affrettato e vano. Si attende per oggi la risposta del leader maoista Sabyasachi Panda all'offerta fatta ieri dal chief minister per risolvere la crisi, un'offerta in realtà molto lontana dalle richieste avanzate dai guerriglieri, che il governo dell'Orissa non ha assecondato se non in minima parte.

Già sabato scorso, dopo la sospensione dei negoziati con la richiesta da parte degli stessi negoziatori maoisti di liberare l'ostaggio italiano, l'ottimismo per la liberazione si era sciolto di fronte alle parole di fuoco di Panda, arrivate domenica pomeriggio in un messaggio audio chiarissimo in cui il leader maoista minacciava di uccidere Bosusco se il governo non avesse rapidamente assecondato quelle che riteneva le condizioni minime rispetto alle 13 richieste iniziali: liberare sette guerriglieri arrestati indicati con nome e cognome, rimuovere il bando su sette organizzazioni politiche sovversive e avviare processi contro i poliziotti accusati di crimini ai danni dei guerriglieri.

Era questa la via indicata da Panda per restituire la libertà all'ostaggio: lo avrebbe fatto, avvertiva nel messaggio audio, consegnandolo direttamente nelle mani dei sette ribelli liberati quando questi fossero arrivati nella giungla portando con loro un accordo scritto con il governo dell'Orissa sulle concessioni promesse. Le condizioni di Panda erano insomma chiarissime: pretendeva
di conoscere quali delle 13 richieste iniziali fossero state concesse dal governo, con un'agenda precisa delle loro realizzazioni e avvertendo che in ogni caso il minimo per liberare l'ostaggio consisteva in quelle tre richieste: liberazione di sette ribelli, eliminazione della messa al bando per sette associazioni e avvio dei processi per i crimini commessi dai poliziotti.

Bene, quasi nulla di questo è stato concesso. Il chief minister ha annunciato la liberazione di 27 persone, ma 23 sono in contropartita per un altro rapimento, quello del parlamentare dell'Orissa finito nelle mani di un diverso gruppo di guerriglieri che opera a cavallo del confine con l'Andra Pradesh. Solo quattro su sette, dunque, riguardano Bosusco. E di questi quattro, solo tre sono nell'elenco minimo indicato da Panda. C'è sua moglie Subhasree Das ma non c'è l'uomo cui Panda teneva di più, il suo braccio destro Gananath Patra. I tre nomi offerti, e anche il quarto fuori lista, sono tutti guerriglieri di rango minore. Inoltre, non c'è alcun cenno ai tempi della loro effettiva liberazione, come preteso da Panda. E non basta: non una sola parola è stata detta sulle altre due "richieste minime" avanzate da Panda, le procedure legali contro gli agenti che hanno commesso crimini e la rimozione della messa al bando delle associazioni politiche.

Tra i giornalisti indiani che sono in diretto contatto con i maoisti lo scetticismo sulla possibilità che Panda si ritenga soddisfatto è fortissimo, e ritengono incomprensibile l'ottimismo espresso dalle istituzioni italiane. La sensazione è piuttosto che il governo dell'Orissa scherzi con il fuoco, continuando il gioco della fune sul piano politico confidando nella scarsa propensione alla violenza fine a se stessa più volte riaffermata dallo stesso Panda. E' una strategia che alla fine potrebbe anche risultare vincente, può darsi che Panda si accontenti e liberi oggi stesso Paolo Bosusco, ma resta una via rischiosa. In Orissa nessuno dimentica le migliaia di poliziotti uccisi dai maoisti, le caserme assaltate e fatte esplodere, le vittime innocenti uccise per errore o come effetto collaterale delle azioni di guerriglia. Sottovalutare la minaccia di Panda di poter essere costretto al "passo finale" se il governo non risponderà rapidamente e concretamente alle sue richieste minime potrebbe

pc 6 aprile - Monti quando va ai vertici viene applaudito - quando va tra la gente contestato e fischiato - Napoli

Visita Monti, protesta in piazza per lavoro e articolo 18

Lavoro e articolo 18 i temi degli slogan dei manifestanti presenti in piazza Trieste e Trento non lontano dal Palazzo della Prefettura dove è in programma un vertice col presidente del Consiglio Mario Monti.
Una manifestazione unitaria che ha messo insieme tutte le anime napoletane dei movimenti di disoccupati, dei collettivi studenteschi, dei movimenti no tav e contro la Coppa America.

Movimenti che, per questo, hanno deciso di scendere in piazza sotto la sigla unitaria di ‘Movimenti sociali napoletani’. Tra le ‘preoccupazioni’ dei manifestanti anche il fronte dei trasporti pubblici, con particolare riferimento alla difficile situazione della Circumvesuviana.

I movimenti dicono ‘no’ alle manovre economiche del Governo Monti e alle riforme del mercato del lavoro e delle pensioni che, affermano, “penalizzano i lavoratori, i precari, i pensionati, uniche categorie a cui si chiedono sempre

comunicato
Posted in: Locali, Notizie
Stamattina centinaia di lavoratori, studenti, disoccupati e precari hanno “accolto” il premier Monti in visita alla Prefettura di Napoli per una conferenza stampa sugli scavi di Pompei. Il presidio, che poi si è trasformato in corteo e si è spostato sotto alla finestra della stanza dove si stava tenendo la conferenza, ha contestato le politiche del governo nazionale dei “professori”, della Regione Campania e dell’amministrazione comunale in materia di lavoro e servizi sociali che stanno causando sempre più morti e suicidi. L’ultimo, stamattina stessa, quando un disabile ha tentato di darsi fuoco sotto alla Prefettura.

In meno di una settimana il governo dei “tecnici” è stato già contestato due volte, a dispetto del consenso trasversale ed ampio di cui si vanta il governo. Tesi fortemente supportata dai media che prontamente spengono i riflettori su qualsiasi focolaio di protesta, sia esso a Modena, dove 10mila lavoratori hanno bloccato la città o a Milano dove un corteo di oltre 10mila persone fra lavoratori, sindacati, studenti e movimenti sociali, ha manifestato fino a Piazza Affari contro le riforme del mercato del lavoro, gli aggiustamenti e i provvedimenti che la Banca Centrale Europea sta imponendo a tutti gli Stati dell’UE. Oggi a Napoli i movimenti sociali hanno voluto dimostrare ancora una volta questo: che un’opposizione reale c’è ancora; opposizione che è pronta a scendere ancora in piazza e a difendere i propri diritti e le proprie tutele, a difendere l’articolo 18 e i servizi sociali, a lottare per una vita ed un lavoro dignitoso per tutti.

Che i sacrifici li facciano i padroni!
L’art. 18 non si tocca!

L’articolo 18 non si tocca! Monti vattene, Napoli non è una passerella!

Dopo aver fatto visita a vari capi di stato in Europa ed in Asia pubblicizzando il “suo” modello austerity, il caro professor Monti fa tappa a Napoli per riunirsi con i vertici della politica locale. Questo governo si vanta di avere un larghissimo consenso in tutti gli strati della popolazione credendo di poter portare la sua immagine di governo di tecnici “super partes” anche nella nostra città senza creare alcun momento di opposizione. Ovviamente così non è: in realtà le loro riforme asservite ai diktat della BCE, e quindi alle politiche economiche dell’UE, altro non fanno che attaccare le classi subalterne ed aumentare il disagio sociale.
Dalla riforma delle pensioni, alla maggiore flessibilità del mercato del lavoro passando per i tagli ai servizi sociali (sanità, trasporti ed istruzione), le privatizzazioni (acqua, servizi pubblici) e gli sprechi sulle “grandi opere” (TAV in Val di Susa e America’s Cup a Napoli) si sta svelando il vero volto di questo governo che può attuare in maniera indiscriminata una serie di riforme non avendo alcun elettorato di riferimento. In questa direzione va l’abolizione dell’articolo 18 che smantellerebbe i diritti dei lavoratori lasciandoli senza alcuna tutela dando di fatto ai padroni la facoltà di licenziare avvalendosi del nuovo strumento ricattatorio del
licenziamento per motivi economici. Ciò si traduce nella sempre maggiore precarizzazione del lavoro, nell’impossibilità di condurre attività politica e sindacale sui posti di lavoro e nell’abolizione di fatto di quei diritti e di quelle tutele conquistate con anni di lotte. L’articolo 18 andrebbe piuttosto esteso a tutto il mondo del lavoro, comprendendo sia i lavoratori precari che quelli delle piccole imprese.
Per questo è necessario in ogni luogo portare il dissenso di tutti coloro che non accettano che, come al solito, i diritti e le tutele siano schiacciati nel nome del profitto di quei pochi padroni e banchieri che speculano sulle spalle di chi sta pagando la loro crisi.

Movimento napoletano

pc 6 aprile - forte sciopero operaio a reggio emilia - gli operai bloccano, il servizio d'ordine fiom-cgil blocca gli operai


bellissime foto e video su Reggioonline.com

Il corteo blocca il casello dell'A1 e poi devia verso la tangenziale.
REGGIO EMILIA - Oltre 10mila persone hanno partecipato alla manifestazione provinciale indetta oggi da Fiom e Cgil contro la riforma del mercato del lavoro. L'adesione, nonostante la pioggia battente, è stata superiore alle aspettative. Non sono mancati momenti di tensione, con alcuni manifestanti sempre più vicini alle forze dell'ordine, quando il corteo è arrivato a bloccare il casello autostradale. In particolare è stato un gruppetto di 30-40 persone a creare problemi la prima volta nella rotonda all'imbocco dei ponti di Calatrava (hanno imboccato una corsia che non dovevano imboccare) davanti alla sede di Max Mara e poi in cima al primo ponte di Calatrava (sono dovuti rientrare nella corsia principale). In entrambi i casi, come del resto davanti al casello, ha provveduto il servizio d'ordine organizzato dalla Cgil a non far degenerare la situazione.

Ecco la cronaca della manifestazione, minuto per minuto



Ore 17.30 - Mentre i manifestanti stanno tornando al punto di partenza, nei pressi dell'Ipercoop, la tangenziale è rimasta completamente bloccata in entrambe le direzioni. Alcuni partecipanti al corteo hanno invaso anche la corsia nord, bloccando le auto: il traffico, di fatto, è paralizzato.
Ore 17 - Dopo alcuni momenti di tensione davanti al casello dell'autostrada, il corteo sta deviando verso la tangenziale, dove ci si attende un nuovo blocco. All'ingresso dell'A1 sono rimasti solo circa 30 manifestanti, ma il rischio di invasione dell'autostrada sembra, al momento, scongiurato.
Manifestanti e forze dell'ordine sempre più vicini
Ore 16.50 - Alcuni manifestanti hanno ripetutamente cercato di avvicinarsi al casello dell'autostrada, avvicinandosi alle forze dell'ordine.
i manifestanti bloccano il casello autostradale e il ponte di Calatrava
Ore 16.20 - Mentre ha iniziato a piovere, i manifestanti sono riusciti a bloccare il casello dell'autostrada, nonostante le forze dell'ordine siano schierate in forza nella zona.
Ore 16.10 - Momenti di tensione durante la manifestazione: alcuni manifestanti hanno cercato di forzare il cordone del servizio d'ordine alla rotonda dell'autostrada, mentre sul ponte sono volati spintoni tra altri manifestanti, che hanno cercato di invadere la carreggiata opposta.
Ore 16 - Alcuni manifestanti hanno bloccato il passaggio alle auto all'altezza del ponte di Calatrava.
Guarda il video: i manifestanti sul ponte di Calatrava
Ore 15.50 - I primi manifestanti sono arrivati nei pressi del casello dell'autostrada.
Ore 15.15 - Secondo le stime della questura, oltre 10mila persone starebbero partecipando allo sciopero indetto da Cgil e Fiom per le categorie commercio, facchinaggio e metalmeccanici. L'adesione sarebbe dunque superiore alle previsioni di ieri.
Il corteo è partito da pochi minuti dal piazzale dell'Ipercoop, e si sta lentamente mettendo in marcia alla volta dei ponti di Calatrava, dove l'intenzione è quella di manifestare contro la riforma del mercato del lavoro.
I manifestanti in marcia verso i ponti di Calatrava
Non sono mancati slogan già molto accesi sia nei confronti del ministro del Lavoro (“Fornero, Fornero vaff…) né contro il presidente del consiglio (“Monti, vieni a pescare con noi: manca il verme”), assieme ad altri in difesa dell’articolo 18.

pc 6 aprile - La lega Nord di Bossi affonda nella corruzione - Berlusconi perde il suo puntello storico - il governo Monti si rafforza.

Bossi si dimette, una inchiesta giudiziaria facile facile, mette in luce la natura del soggetto e del suo 'cerchio magico', una banda di ladri di stato di piccolo taglio, del livello politico e umano dell'intera Lega.
Questo partito è stato usato dai padroni e padroncini del nord e da Berlusconi come puntello e arma per il loro dominio e i loro interessi, e ha potuto coagulare interessi e umori di tipo fascista e razzista popolari sotto le bandiere del federalismo secessionista.
Venuta meno la copertura di Stato e di governo di Berlusconi, la lega è rimasta esposta a una semplice inchiesta che ne ha messo in luce la sostanza della sua gestione di familismo feudal-reazionario.

Il cambio obbligato di cavallo della borghesia imperialista italiana che ha portato al governo Monti e i suoi professori ora si consolida come unica soluzione.
Di moderno fascismo in formazione come regime si trattava con Berlusconi-Bossi, di moderno fascismo in forma di dittatura dei tecnici si tratta ora.
Il governo Monti è peggio di Berlusconi nei suoi provvedimenti economici che scaricano la crisi sui proletari e le masse popolari, nei suoi provvedimenti politici come l'odierna riforma del mercato del lavoro e smantellamento dell'art.18.
Esso si pone come comitato di affari del fascismo padronale targato Marchionne-Fiat-Confindustria, come comitato di affari che raccoglie i principali partiti del Parlamento e i sindacati confederali come unico blocco, per far passare come interesse generale, l'interesse particolare della borghesia imperialista italiana nel suo complesso, nel vortice della crisi economica e finanziaria che prosegue.

Operai, proletari e masse popolari impoverite in termini assoluti e relativi dallo scaricamento della crisi sulle loro spalle, vorrebbero contrapporsi e reagire, e in alcuni casi reagiscono con scioperi, manifestazioni,combattive resistenze, ma tuttora hanno nelle loro mani programmaticamente e organizzativamente armi spuntate.. la fiom con i piedi in due staffe che perde pezzi a destra, il sindacalismo di base e di classe ancora debole e frastagliato, l'opposizione di sinistra ancora nelle spire delle illusioni parlamentari,riformiste,pacifiste di vario tipo.Il movimento è tutto.. il fine è o riformista o è nulla.
Le condizioni oggettive si fanno sempre più favorevoli, ma quelle soggettive fanno fatica a modificarsi. Non ci sono scorciatorie, ricostruire dal basso il sindacato di classe come sindacato di tipo nuovo, capace di unità e lotta, capace di fare da sponda e area organizzata alla guerra di classe, da attivare a partire dalle fabbriche; fronte unito proletario fuori dal sindacalismo confederale e dal riformismo politico, sia parlamentare che extraparlamentare; ma sopratutto costruzione del partito proletario rivoluzionario, marxista-leninista-maoista, in funzione del nuovo inizio della lotta politica rivoluzionaria necessaria per affermare la rivoluzione proletaria come unica soluzione per il potere proletario e socialista in marcia su scala mondiale per l'ipotesi e l'alternativa comunista.


proletari comunisti - PCm Italia
6 aprile 2012

pc 6 aprile - uno degli operai, delegato e quadro storico della Fiom all'Ilva Taranto lascia la Fiom

la sua lettera disdetta -
il compagno continua oggi la sua lotta nelle file dello slai cobas per il sindacato di classe all'Ilva di Taranto


Alla FIOM-CGIL TUTTE LE STRUTTURE
Cara FIOM,
io sono nato sindacalmente con te nel 2001 come R.S.U. eletto dai lavoratori.
Sono l’ultimo dei tre moschettieri dell’ILVA di Taranto, che all’inizio della sua storia, con la sua lucente croce sul petto e tanto, tanto entusiasmo, voleva cambiare le cose, lo desiderava con ogni muscolo del corpo.
Il mio cammino sindacale si è interrotto alla fine del 2007, quando osai ribellarmi ad un sistema costituito e consolidato e, a tal proposito, inviai una lettera all’attenzione di tutte le strutture, firmata dalla maggioranza dei compagni che facevano parte del direttivo. Una battaglia pulita la nostra, fondata sulle argomentazioni, sulle idee, sui fatti e persa con i sotterfugi. L’esperienza di sindacalista prima, esecutivo e coordinatore di fabbrica successivamente, mi ha arricchito, ma i sei anni intensi di sindacato vero fra i lavoratori, ahimè non sono bastati ad insegnarmi le strategie meschine che mi spinsero ad abbandonare disgustato i miei sogni.
Mi è costata tanto quella coerenza, lacrime vere, ma nemmeno una per il rammarico di aver rinunciato alla mia carriera, numerose e amare quelle di rabbia per aver dedicato tutto me stesso, per tanto tempo, ad un progetto irraggiungibile, inarrivabile.
Quell’episodio a voi ben noto, mi convinse che se non potevo contribuire a cambiare la storia, allora non potevo farne parte, decisi di dimettermi. Si sa che in questi casi i martiri, fanno più male degli eroi e allora giù a diffamare la mia persona, denigrare, disonorare con ogni sorta di storia inventata ad arte. Ho subito anche questo, ma sono rimasto in silenzio in questi anni, ho inghiottito tutto, mi sono limitato ad essere un iscritto, un operaio di 3° livello, con tanta dignità e orgoglio.
Mi ha turbato oltremodo sapere dei provvedimenti ricevuti da Rizzo Francesco e Battista Massimo, perché io so chi sono Battista e Rizzo, cosa rappresentavano quando militavano nella FIOM. Erano gli stessi con i quali, da componenti dell’Esecutivo, si manteneva in piedi la FIOM di Taranto, gli stessi che vivevano e affrontavano realmente i problemi dei lavoratori, quelli che quando le cose andavano bene, quando ancora non avevano “osato”, sono stati usati e manipolati a proprio uso e consumo da chi avrebbe dovuto insegnare altri valori.
A quel tempo, sapevamo di essere un problema per l’azienda e per gli altri sindacati, ma non immaginavamo che, presto, lo saremmo diventati anche per la nostra Federazione. Si perché i tre moschettieri avevano un seguito importante, proveniente dalla fiducia ritrovata da parte di tanti lavoratori, che avrebbe potuto allargare il suo consenso e, se alimentata e sostenuta,forse avrebbe portato meriti ad un sindacato fino ad allora sopito, sicuramente ricattato dal ricambio occupazionale, ma ostinatamente impegnato a lasciare la nave da crociera prima che diventasse un barcone senza timone, tutto ciò, non è servito purtroppo a sensibilizzare la coscienza di chi doveva alimentare l’entusiasmo e far crescere la FIOM senza badare ad altri interessi.
Cominciavamo con l’esperienza a comprendere a nostre spese, che la foga da spadaccini utilizzata dai moschettieri per ottenere qualsiasi conquista, si definiva in una riunione dei soliti noti con l’azienda, una riunione dove, chissà perché, si doveva rimanere soli, da quella stanza “privata”, quasi mai ci ha restituito i risultati auspicati.
Per tale ragione, in occasione di una di queste riunioni, il sottoscritto e il compagno Battista, decidemmo di rimanere fino alla fine, sfidando il nostro destino, solo per una volta, solo per capire quale importanza avesse per chi vi partecipava “restare da soli” con l’azienda. Di cosa si discutesse in tali occasioni, per noi, rimane tutt’oggi un mistero, con l’occasione infatti, ottenemmo solo le ire di chi aveva “diritto” di presenza. Fummo “invitati” ad uscire, anzi, fummo cacciati, così realizzammo le nostre certezze, quelle che fino ad allora erano stati solo dubbi.
E se fino ad allora il motto era “moschettieri!!! State buoni, portateci le tessere e non rompete troppo i coglioni”, da quel momento, le croci che luccicavano sul nostro petto, si preparavano ad essere riposte sulle nostre teste.
Ed ecco che diventava sempre più difficile dare spiegazioni ai lavoratori, su tante strane decisioni. Noi ci si metteva la faccia, il cuore, ma non bastava, era arrivato il momento di cominciare la nostra battaglia che ancora oggi riteniamo legittima e libera da qualunque fine arrivista, eravamo coscienti di non essere in grado di svolgere ruoli maggiori a quelli che avevamo, volevamo solo democrazia, avremmo voluto un cambio ai vertici, qualcuno in cui credere, ma il nostro appello fu anche la nostra condanna.
Allora mi domando: perché fra i sospesi non c’è la FIOM nazionale che era a conoscenza di quanto avveniva? Eppure era indicato tutto nella lettera che ho inviato alla tua attenzione, firmata anche da Battista e Rizzo, non l’hai letta cara FIOM? Posso fornirti di una copia qualora non la trovassi.
I fatti oggi dimostrano quello che noi denunciavamo, ma i veri responsabili hanno voluto punire e trascinare nella loro vergogna anche chi ha rovesciato le poltrone, che aveva l’unica colpa di essersi opposto. Quanto è accaduto da allora alla FIOM di Taranto in funzione di seguito di iscritti, dimostra che quei lavoratori avevano fiducia solo negli uomini che rappresentavano la sigla e non per i meriti di questa.
Questi sono i FATTI che dovevano essere esaminati.
Tornando ai tre moschettieri che, da quel giorno, furono ufficialmente processati nella stanza che conta, erano usciti dal recinto e pertanto andavano fermati in tempo, per la pace di tutti. Eh!! Si, strano processo quello con il solo inquisitore, senza difesa, ne imputato viva la democrazia.
Da iscritto Fiom quale sono oggi, mi piacerebbe sapere se nell’indagine realizzata nei confronti di Rizzo e Battista, la “commissione” abbia tenuto conto del parere dei lavoratori, anche ponendosi come minimo obiettivo di interrogarne uno solo, magari con scelta ad estrazione, per sentire dalle loro voci chi erano Rizzo e Battista, solo al fine di avere le idee più chiare, ma soprattutto se abbia ascoltato Rizzo o Battista, non per diritto di giustizia, ma per rispetto di quello che hanno fatto per anni in favore dei diritti dei lavoratori, in tuo nome tuo cara FIOM.
Se la commissione ha eventualmente deciso di avvalersi delle sole testimonianze di chi è ai vertici della FIOM di Taranto, non c’è bisogno che lo dica io che i moschettieri non piacevano a nessuno di questi personaggi.
Questa ulteriore assurda decisione, mi ha convinto dopo dodici anni di militanza, che questo sindacato non mi rappresenta più nemmeno come iscritto.
Non può il sindacato che mi rappresenta, considerare una conquista la vertenza sul cambio tuta, siglata senza consumare nemmeno un’ora di sciopero per convincere l’azienda a ritoccare una cifra vergognosa, vertenza che ha coinvolto le parti per un tempo lunghissimo, ma che guarda caso, si chiude in fretta e furia un paio di settimane prima delle sentenze di Genova … Coincidenze?
Non è il mio sindacato quello che non programma nemmeno un’ora di assemblea per tornare dai lavoratori dopo aver siglato la suddetta contesa col fine di spiegare quanto proposto dall’accordo e di giustificare il proprio fallimento, e che invece ne consuma ben 4 di quelle ore per sostenere quella che dovrebbe essere la normalità. Nella mia poca, ma intensa esperienza sindacale, ottenere un’ora di assemblea dall’azienda ILVA di Taranto è stata sempre un’impresa, concedimi cara FIOM, di fare i miei complimenti a chi è riuscito ad ottenerne così tante, ben 4 e di proprietà dei lavoratori, nei tempi giusti e con tutti i mezzi di informazione e di trasporto a disposizione, impresa sicuramente ardua, ma mi consola sapere di tale conquista, mi rinfranca la certezza che le agevolazioni ricevute dall’azienda nell’occasione, saranno disponibili alla stessa maniera sul proseguimento delle lotte contro la riforma dell’Art. 18, a proposito di ciò, 10 ore di sciopero e nemmeno un’ ora di assemblea a sostegno … Questione di priorità?
Non mi rappresenta un sindacato che oggi 30/03/12, con un comunicato sostiene che i lavoratori sono ricattati dai responsabili aziendali e costretti alla partecipazione della manifestazione programmata (da chi?) pare da “i lavoratori”, lo stesso sindacato che si limita come sempre a comunicare, ma non è presente nei reparti a denunciare chi ha abusato del suo potere, li è meglio stare alla larga, meglio che si dica che oltre 7000 lavoratori erano in piazza a manifestare “liberamente”, ammettendo l’ennesima sconfitta di chi il giorno prima, col solito volantino, invitava i lavoratori a disertare.
Dopo aver tratto innumerevoli, amare conclusioni cara FIOM, sul sindacato in generale che rappresenta i lavoratori dell’ ILVA di Taranto, sempre più abbandonati al loro destino, ho deciso di lasciarti cara FIOM di Taranto. Ti lascio alle tue divisioni, alle persecuzioni di chi la pensa diversamente, alla tua democrazia di facciata, al tuo caro arrivismo a costo di tutto, anche del proprio orgoglio, della propria coscienza, della dignità che hai il coraggio di pretendere dai lavoratori. Ti lascio alle tue bramate “tessere” sempre in cima alle tue priorità, causa di tante dispute, di tante diatribe che svantaggiano solo chi l’ha già sottoscritta.
Con profonda delusione ti dico addio cara FIOM.
Le soddisfazioni che speravo di ottenere nel mio ideale di sindacato, le ritrovo ancora oggi, a distanza di 5 anni, tra i lavoratori che rimpiangono i tre moschettieri, ma non oso invece raccontarti della considerazione che hanno quelli stessi lavoratori riguardo al Sindacato dell’ILVA di Taranto, quando si parla da lavoratore a lavoratore, da uomo a uomo, quando si è effettivamente liberi di esprimere il proprio pensiero, se lo raccontassi, mi sentirei in imbarazzo per te e per molti di coloro che attualmente ti rappresentano a Taranto.
Taranto 30/03/12
L’ultimo moschettiere Ranieri Cataldo
Segue disdetta sindacale.